“Ci sono critiche che non hanno fondamento, altre che ti aiutano a crescere”. A quattro anni dall’esordio (“Il ladro di nebbia”), Lavinia Petti torna con un nuovo romanzo, “La ragazza delle meraviglie”, ambientato nella sua Napoli. In quest’intervista a ilLibraio.it la scrittrice si racconta a cuore aperto (“Il nuovo libro? Non sarà un libro permaloso e non pretenderà di essere capito: gli basterà essere ascoltato”), e parla della sua città (“Temo tantissimo il processo di mercificazione che ultimamente colpisce certi luoghi, un tempo invisibili”)

Fortunatamente, il destino, con la sua imprevedibilità, può sempre riservare sorprese: Francesca Annunziata, la protagonista del nuovo romanzo di Lavinia Petti (nella foto di Yuma Martellanz, ndr), La ragazza delle meraviglie (Longanesi), nasce a nuova vita dopo essere stata adottata da una famiglia di estrazione popolare, che la ama di un affetto sincero. Ma la bambina, fin dai primi anni, manifesta qualcosa di strano: cosa sono e da dove arrivano le ombre che vede? Che cosa la rende tanto inquieta, mentre si aggira per le vie di Napoli?

Tentando di svelare il suo segreto, ovvero di scoprire l’identità della madre biologica sulla base della chiave di rame e dell’antichissima moneta che aveva al collo quando era stata abbandonata sulla Ruota degli Esposti, Fanny capisce di doversene andare da casa e fare chiarezza.

Ma la ragazza non è mai davvero sola: attorno a lei, strani personaggi (decisamente caratteristici) raccontano in modo inedito le strade del capoluogo campano, tra passato e presente. A quel punto, risolvere il proprio enigma significherà per Fanny osservare la città sotto una luce e in mezzo a ombre inattese… Napoli, con le sue vie che pullulano di storia e di misteri, tra fantasia e realtà, torna a popolare anche questo romanzo di Lavinia Petti.

Nel suo esordio, Il ladro di nebbia (Longanesi, 2015), era la dimensione onirica ad avere la meglio. Per scoprire di più su La ragazza delle meraviglie, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice.

“Napoli assomiglia a un gigantesco ragno che traballa su centinaia di gambe. Sono le sue scale. È uno dei segreti meglio custoditi dalla città. Le scale, le gradonate e le pedamentine corrono dalla punta delle colline alle sponde del mare”. Cosa significa per lei, napoletana, scrivere della sua città, negli ultimi tempi protagonista di diversi libri e film di successo?
“Quand’ero ragazzina mia nonna non faceva che ripetermi: scrivi di quello che conosci. Ecco, Napoli è una cosa che conosco. È la mia città, non soltanto perché ci sono nata, ma perché ho scelto di viverci. La amo in modo viscerale. La primissima idea per questa storia mi è venuta in mente un po’ di tempo fa, quando sono tornata dall’Inghilterra, dove avevo vissuto un anno. La nostalgia fortissima, dilaniante, che avevo di Napoli e del mare me l’ha ispirata. Che ora Napoli sia al centro dell’attenzione mi fa piacere, naturalmente: è un’occasione di rinascita, ho assistito con i miei occhi a questo cambiamento, giorno dopo giorno. Però mi ingelosisce”.

Perché?
“È una cosa mia, e temo tantissimo il processo di mercificazione che ultimamente colpisce certi luoghi, un tempo invisibili”.

Dora “era convinta che si potesse salvare e comprendere il passato, se si aveva la costanza di annotare il presente”. Anche lei ha annotato e/o annota il presente per conservare al meglio quel che è stato?
“Sì, ma lo faccio a modo mio, che è il modo di una persona disordinatissima. Non butto mai niente, qualsiasi oggetto diventa una reliquia legata a un avvenimento o una persona, ho mille taccuini diversi su cui scarabocchio continuamente pensieri, incontri, eventi… Li lascio in una scatola, in qualche cassetto. Quando mi capita di ritrovarli per caso, dopo anni, mi rendo conto di avere una pessima memoria e opinioni molto mutevoli: la maggior parte di quello che è successo è stato rimosso e non sono d’accordo neppure con la metà delle cose per cui un tempo mi sarei gettata nel fuoco. È divertente”.

Cosa si prova in questi casi?
“Ritrovare il te stesso del passato ti porta a vivere certe sensazioni come se fosse la prima volta, le rende di nuovo presenti, anche se tu sei cambiato. È una strategia bizzarra, ma purtroppo sono nata disorganizzata e nostalgica, e il tempo per me ha più senso quando va all’indietro”.

E cosa possiamo fare per conservare al meglio le memorie delle nostre famiglie?
“Parlare. Ascoltare le storie che vengono prima di noi, raccontarle a chi viene dopo. Questo romanzo, che ha impiegato alcuni anni a prender forma, è cambiato tante volte tra le mie mani, ma di una cosa sono sempre stata certa: a un certo punto, doveva esserci qualcuno che narrava una storia e qualcun altro – la protagonista – doveva ascoltarla, riceverla come un dono e custodirla”.

“Contava solo una cosa. Quella figlia di nessuno aveva fatto di lei una madre”. Nel suo nuovo romanzo, la protagonista viene adottata nelle primissime pagine, quando viene trovata in fasce. In questi anni in cui si discute tanto di maternità e genitorialità, per lei cosa significa essere genitori?
“Mettere un altro essere umano davanti a se stessi. L’amore ha sempre qualcosa di egoistico, e anche quando crediamo di volere la felicità di un’altra persona, in realtà, inconsciamente, speriamo che faccia la nostra. Con un figlio dovrebbe essere diverso, dovrebbe significare dare priorità alle sue esigenze piuttosto che alle proprie. Questo non vuol dire annullarsi, né concedergli tutto, ma prendersi la responsabilità di crescere una vita umana, sapendo che l’amore incondizionato è un vincolo potentissimo, inossidabile come acciaio, e nessuno può prevederne la portata. Ma io parlo da esterna, perché madre non lo sono. So soltanto che se non si è pronti a farlo, o non si vuole farlo, o non si può farlo, non si è persone peggiori o inferiori o menomate”.

Ed essere figlia?
“Dipende dalle fasi di vita, è un processo di continua trasformazione. Si passa da un rapporto di totale dipendenza all’ammirazione più sfrenata, dalla realizzazione della loro umanità e dei loro errori alla rabbia, dal perdono all’accettazione, dall’allontanamento alla complicità. È una relazione estremamente complessa, la prima, la più intensa, il trampolino di lancio nel mondo. Adesso che sono adulta mi sento in debito nei loro confronti e vorrei essere in grado di restituirgli anche solo in piccola parte quello che mi hanno dato”.

“Il suo motto preferito – NON È VERO MA CI CREDO – era intagliato su una targa di legno sopra la cassa”: cosa deve fare un autore per portare il suo lettore a pronunciare una frase del genere?
“Sa quali storie mi piacciono? Quelle che, voltata l’ultima pagina, ti lasciano con questa domanda: e perché no? Non è facile pungere il lettore con queste tre paroline. Però quando succede è bello. Bisogna instillare il dubbio, gettare fumo negli occhi. È come un gioco di prestigio: la gente sa che c’è il trucco, ma deve faticare a trovarlo. Perché l’illusione avvenga, uno scrittore deve conoscere molto bene ciò di cui scrive, padroneggiare il materiale, inserire dettagli così precisi che, paradossalmente, creano confusione. Alla fine, comunque, il trucco funziona solo se si crea empatia tra chi scrive e chi legge. Una magia molto antica”.

Fanny, la protagonista, ama le sfide e non esita a mettersi in gioco. Quali sono le più grandi sfide che deve affrontare uno scrittore?
“Ce ne sono tantissime. A partire dal momento in cui dichiari di fare lo scrittore, e le persone ti guardano e con un colpo di ciglia insistono a chiederti: sì, ma il vero lavoro qual è? È tutto una sfida, ogni giorno. Non hai uffici, non hai colleghi, non hai orari. Quello che per altri è benedizione per uno scrittore è solitudine. Che pure è benedetta, a volte, ma alla lunga diventa logorante. Poi devi trovare storie originali. Cercare di non ripeterti. Affinare stile e tecnica. Emergere tra mille romanzi. Non avvilirti se la storia in cui hai creduto non funziona. Personalmente, la sfida più grande, con questo secondo romanzo, è stato trovare un metodo. Nessuno ti insegna a scrivere, e credi di saperlo fare finché non devi farlo per professione. A quel punto tutto salta in aria, e capisci che avere buone idee non serve a nulla. Le buone idee sono come una lontanissima stella polare, che detta la rotta. Tutto il resto, però, lo fanno disciplina e determinazione. E passione, ovviamente”.

In passato ha dichiarato: “I libri sono più permalosi delle donne. Non vogliono essere sfogliati da chi non li capisce”. Qual è il titolo con cui è entrata più in questa singolare e affascinante sintonia?
“Devo essere sincera: quando ho scritto questa frase sono stata autoreferenziale. Pensavo al mio primo romanzo, Il ladro di nebbia. Tutte le storie, in un modo o in un altro, parlano di chi le scrive, ma forse nessuna si avvicina alla verità tanto quanto quella che si racconta nel primo libro. Lì uno scrittore riversa tutto se stesso. Quando Il ladro di nebbia è stato pubblicato io ero molto più giovane e mi sentivo l’anima messa a nudo. Ero un agnello gettato nella fossa dei leoni. Il libro è piaciuto a molte persone, ma c’è stato anche chi non l’ha capito. È una cosa normalissima, eppure quelle critiche le ho prese un po’ sul personale: non mi sentivo giudicata in quanto scrittrice ma in quanto persona. Per fortuna, il tempo ti insegna a dare peso e forma alle cose. Ci sono critiche che non hanno fondamento, altre che ti aiutano a crescere. In fondo, scrivere quella frase è stato un modo per dare conforto alla me stessa di qualche anno fa. Ammesso ciò, vorrei rispondere comunque alla sua domanda. Ultimamente sono entrata a far parte di un gruppo di lettura. Non lo avevo mai fatto prima. È un’esperienza interessante, realizzi più che mai come un’unica storia possa frammentarsi in una moltitudine d’impressioni. Abbiamo letto La Straniera di Claudia Durastanti, e la scrittrice, in un video mandato dal Mississippi, ha detto che si augurava che la nostra fosse una discussione accesa. Così è stato. Soprattutto con un’autobiografia, capire una storia significa capire la persona che l’ha scritta. Entrarci in sintonia, appunto. All’inizio, nel leggerla, ho avuto delle difficoltà. Mi trovavo davanti ai pensieri profondissimi di una donna che sembrava aver nascosto le proprie emozioni. Lei stessa parla di scarsa empatia. Poi, verso la fine del libro, come un colpo di scena è apparsa una crepa: da quel punto mi sono sporta e l’ho vista veramente, ho visto tutto. E non ho potuto fare a meno di amarla. Quindi, ripensandoci adesso, La ragazza delle meraviglie non sarà un libro permaloso e non pretenderà di essere capito: gli basterà essere ascoltato”.

 

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