“Hill House”, la serie horror di Mike Flanagan, si prende di diritto il podio delle produzioni originali Netflix per la capacità di raccontare con una sensibilità commovente la storia di una famiglia, mostrando le fragilità di ogni individuo e, soprattutto, scoprendo le crepe all’interno di una casa infestata più dal potere distruttivo dei segreti che dagli spiriti maligni. L’uso del soprannaturale e delle sue creature, infatti, è spesso una metafora per rivelare i traumi che ci portiamo dentro… – L’approfondimento di Ilenia Zodiaco

Liberamente tratta dal romanzo “insano” di Shirley Jackson, Hill house – serie originale Netflix, uscita questo novembre – non ha alcuna paura di definirsi horror, il genere più bistrattato dell’audiovisivo, quello che molti non guardano per principio. Molti non si sognano manco lontanamente di vedere i primi dieci minuti di un film dell’orrore, figuriamoci un’intera serie da dieci episodi su una casa infestata in cui si trasferisce un’allegra famigliola fino al loro totale deragliamento mentale.  

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Eppure i frutti dell’horror non possono essere relegati ai sussulti sulla sedia, gli amanti di questo genere apparentemente sensazionalistico non sono solo alla ricerca di emozioni forti, sono alla ricerca di se stessi. La paura è un terreno da indagare perché dice molte cose su chi siamo: in una situazione di pericolo sei quello che scappa, quello che si paralizza o quello che, pur di sapere, pur di guardare in faccia ciò che teme, va incontro alla porta socchiusa che nasconde il mostro? E soprattutto chi è il mostro, da cosa è prodotto e cosa rappresenta nel genere horror? Anche in letteratura l’uso del soprannaturale e delle sue creature è spesso una metafora, un trucco da mago, per raccontare il trauma che ha generato quel mostro dentro di noi. 

Storia a parte fa la figura del fantasma, lo spettro che più che temuto è evocato da chi è in grado di vederlo. Pensiamo a Heatcliff in Cime Tempestose che implora la sua Cathy di tornare anche in forma di fantasma per tormentarlo, tutto pur di non rimanere da solo in quello che è diventato un deserto terreno senza di lei. Anche in Hill House viene fatta una riflessione simile: “ho vissuto con i fantasmi da quando ero bambino, ancor prima di sapere che esistessero. I fantasmi sono colpe, sono i nostri segreti, i rimorsi, i fallimenti ma quasi sempre un fantasma è un desiderio”. Creare uno spettro significa riportare indietro i morti, permettergli di rimanere ancora con noi a farci compagnia. Non è mai una compagnia che rincuora, piuttosto atterrisce, perché sappiamo che è innaturale. 

La serie di Mike Flanagan comunque fa molto più di questo ed è anche il motivo per cui si prende di diritto il podio delle produzioni originali Netflix; tra quei gradini troviamo anche il recentissimo Maniac e la popolarissima Stranger Things, anch’essi due show che giocano con il genere fantastico.

La parte orrorifica di Hill House è molto d’impatto nei primi episodi e poi pian piano diventa sempre meno spaventosa e più familiare, quasi come se riuscissimo a conoscere quei mostri che hanno tormentato la famiglia Crain e quindi fanno meno paura.

Il focus si sposta dal fantasma a chi ha visto il fantasma e perché l’ha visto, i personaggi sono il vero fulcro del racconto; personaggi che vanno incontro a un profondo processo di analisi, non a caso i primi cinque episodi sono “divisi”, ad ogni fratello è assegnato un punto di vista di cinquanta minuti, per poi ricongiungersi a partire dal sesto episodio. 

Tutti e sette i membri della famiglia (mamma, papà e i cinque figli) hanno una storyline ben sviluppata, raccontata con una sensibilità commovente, veicolata da un cast non eccezionale ma perfetto per il lavoro che è chiamato a compiere ovvero mostrare le fragilità di ogni individuo e soprattutto scoprire le crepe all’interno della casa famigliare, scossa più dal potere distruttivo dei segreti che dagli spiriti maligni che la abitano.

Sulla carta Hill House sembra un disastro per la capacità di mettere su pellicola troppi temi: la malattia mentale, la solitudine, la tossicodipendenza, il rapporto conflittuale tra padri e figli, tra fratelli e sorelle, il suicidio, la sessualità e molto altro. Questo senso di pesantezza però svanisce con la visione della serie che è orchestrata magistralmente da un regista in grado di dosare i momenti di tensione a quelli introspettivi, nel tratteggiare le numerose dinamiche relazionali all’interno della famiglia Crain anche solo con un’inquadratura. E se è vero che la domanda più frequente riguardo a Hill House è “fa spaventare?”, quella che dovreste farvi invece è “perché non ho ancora messo in riproduzione il primo episodio?”.   

L’AUTRICE – Qui tutti gli articoli e le recensioni di Ilenia Zodiaco per ilLibraio.it

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