“Il miglior modo per imparare a scrivere è leggere molto e bene…”. Sembra un consiglio scontato, ma oggi non lo è (più). ilLibraio.it ha intervistato Francesco Bianco, ricercatore di Lingua e Linguistica italiana in Repubblica Ceca, in libreria con “Breve guida alla sintassi italiana”. Tra i temi affrontati, anche il fatto che in certe scuole si consiglia di evitare il più possibile la subordinazione, visto che i ragazzi faticano a costruire un periodo complesso coerente: “Si deve capire che la subordinazione non è un orpello inutile della grammatica: al contrario, essa serve a dare spessore al nostro pensiero”

La maturità è finita da poco, gli esami universitari sono ancora in corso e presto ci saranno nuovi laureati nelle università italiane e straniere. Per parlare dello stato dell’italiano oggi nell’insegnamento e nella ricerca, ilLibraio.it ha incontrato Francesco Bianco, ricercatore di Lingua e Linguistica italiana all’Università “F. Palacký” di Olomouc, in Repubblica Ceca, dove si occupa principalmente di sintassi dell’italiano antico e moderno, italiano letterario, italiano d’emigrazione, italiano burocratico e onomastica.

Francesco Bianco - Pavel Konečný

Francesco Bianco – foto di Pavel Konečný

Di recente è uscito per i tipi di Franco Cesati Editore la sua Breve guida alla sintassi italiana: a chi è indirizzata principalmente?
“La Breve guida nasce in seno a un progetto, finanziato dal mio ateneo, che ha come fine l’innovazione della didattica universitaria. Il libro è stato dunque concepito in primis per gli studenti di italianistica. Lavorando in Repubblica Ceca, ho cercato di realizzare un volume abbastanza semplice e chiaro da poter essere usato anche – ma non solo – con studenti non madrelingua. Proprio per questo, anche perché non richiede preconoscenze di linguistica, il libro può essere utile anche a chiunque abbia delle buone basi scolastiche e un interesse per la materia: insegnanti, appassionati di lingua e forse anche qualche studente delle superiori particolarmente volenteroso”.

sintassi

In qualità di ricercatore di Lingua e Linguistica italiana a Olomuc, in Repubblica Ceca, a quali aspetti della sintassi italiana dà maggiore importanza nell’insegnamento?
“In altri dipartimenti, come quello di inglese, gli studenti entrano con una conoscenza della lingua straniera già buona. I corsi di sintassi, in questi dipartimenti, hanno dunque carattere teorico e sono finalizzati all’insegnamento dei modelli sintattici più moderni e raffinati (come la grammatica generativa di Noam Chomsky); i nostri studenti, invece, partono da un livello più basso ed è per questo che i nostri corsi di sintassi sono corsi di lingua e linguistica assieme. Una delle cose più importanti, per me, è dunque questa: riuscire a coniugare teoria e pratica”.

C’è molto dibattito sulla necessità o meno di correggere ogni errore commesso da uno straniero che si avvicina all’italiano. Alcuni sostengono che sia fondamentale, altri che innalzi un filtro affettivo e che blocchi future interazioni. Lei come si muove tra questi poli opposti?
“All’inizio, soprattutto nei corsi di lingua e di conversazione, è importante rompere il ghiaccio e lasciare che lo studente prenda confidenza con lo strumento (la lingua), a divertircisi. In questa fase, secondo me, è meglio limitare al minimo le correzioni esplicite degli errori. In seguito, quando lo studente ha acquisito una certa padronanza della lingua, è possibile e anzi opportuno lavorare in maniera più sistematica sugli errori, per raffinare il suo modo di scrivere e di parlare”.

Il suo manualetto è veramente utile per un ripasso prima della maturità. Anche quest’anno, stando ai dati, gli studenti italiani hanno commesso soprattutto errori di grammatica (32%), dalla difficoltà nel riconoscere la necessità o meno dell’apostrofo (41%), all’esigenza del congiuntivo (23%), fino ai più comuni errori di ortografia. A suo parere è necessaria una revisione degli attuali programmi scolastici? Come si potrebbero evitare questi dubbi?
“Non ho mai lavorato nella scuola italiana, che conosco esclusivamente attraverso i miei ricordi di ex alunno – ma erano, ahimè, altri tempi – e la testimonianza di amici e colleghi insegnanti. Non credo, perciò, di poter essere io a dare la formula per la ‘buona scuola’ – ammesso che esista! -. Ciò che posso dire con convinzione, in base alla mia esperienza, è che il miglior modo per imparare a scrivere è leggere molto e bene: in primis mi vengono in mente narratori novecenteschi come Buzzati, Calvino, Primo Levi – per limitarci al Novecento -, che sono esempi di prosa attuale, chiara, elegante, semplice ma ricca. In anni più recenti la narrativa ha preso altre strade, imitando soprattutto i dialetti, il parlato informale e giovanile e le scritture digitali: strade artisticamente legittime, per carità, ma che rendono tale narrativa meno adatta ad essere proposta come modello di lingua per i giovani. Ci sono, però, i saggisti e le grandi firme del giornalismo: Eco, Montanelli, Romano, Sartori, Scalfari, al di là del loro pensiero, che si può condividere o meno, sono modelli linguistici che la scuola potrebbe sicuramente proporre”.

Un altro problema molto presente nelle tesi di laurea oltre che negli elaborati degli studenti liceali riguarda la gestione consapevole della struttura argomentativa. In certe scuole si consiglia di evitare il più possibile la subordinazione, visto che i ragazzi faticano a costruire un periodo complesso coerente. Cosa ne pensa di questa scelta? Come si potrebbe esercitare e migliorare la padronanza argomentativa?
“Si deve capire che la subordinazione non è un orpello inutile della grammatica: al contrario, essa serve a dare spessore al nostro pensiero, inserendo i contenuti che vogliamo esprimere in una struttura organizzata in modo gerarchico, permettendoci di veicolare relazioni e concetti complessi. Scoraggiare il ricorso a questo tipo di strutture significa non solo arrendersi, ma addirittura favorire l’impoverimento linguistico e concettuale – chi scrive male pensa male – dei discenti. Al contrario, bisogna insegnare a scolari e studenti a governare queste strutture, facendo capire loro anche perché esse siano importanti. Per far questo, naturalmente, servono insegnanti motivati, preparati e aggiornati.
A livello universitario, poi, c’è un altro problema: spesso in Italia la prassi scrittoria è del tutto trascurata. Gli studenti arrivano alla stesura della tesi di laurea dopo tre o più anni di esami prevalentemente o esclusivamente orali: come si può pensare che non siano, quanto meno, un po’ ‘arrugginiti’ nello scritto?”.

Secondo Fernando Pessoa, “la fortuna di un popolo dipende dallo stato della sua grammatica. Non esiste grande nazione senza proprietà di linguaggio”. L’eccessiva semplificazione sintattica e lessicale di questi ultimi anni è specchio dei tempi?
“Mi lasci dire una cosa, in controtendenza con il pensiero dominante. In Italia si crede che l’impoverimento linguistico e, più in generale, culturale – le due cose sono connesse – sia un problema esclusivamente o prevalentemente nostro. Avendo lavorato sia in atenei italiani sia in atenei stranieri (in Francia e in Repubblica Ceca), posso dire che non è così: i francesi, per esempio, hanno tante difficoltà con la propria lingua quante ne abbiamo noi con la nostra. Questo per dire che il problema esiste, ma non è esclusivamente italiano. È una tendenza globale, secondo me, favorita – tra l’altro – dalla diffusione capillare degli smartphone, che negli ultimi dieci anni hanno sottratto tempo e occasioni alla lettura. Una volta, in metropolitana, si leggevano libri; oggi si chatta”.

Nei nostri discorsi quotidiani facciamo largo uso di topicalizzazioni e dislocazioni (a cui dedica la sezione finale del suo libro), ma forse pochi parlanti (anche nativi) ne hanno piena consapevolezza. Le pare necessario che la sintassi marcata venga trattata anche nelle scuole dell’obbligo? Può farci qualche esempio di uso marcato che un tempo sarebbe stato segnalato con la matita blu e che oggi è invece accettato nell’italiano dell’uso?
“Le cosiddette ‘frasi segmentate’ sono parte integrante della nostra lingua e non da ieri. Nel primo documento scritto in volgare “italiano”, il Placito di Capua (960 d.C.), c’è una dislocazione a sinistra (del tipo: il Premio Strega lo ha vinto Cognetti). Sono stati i grammatici, nei secoli successivi, a proscrivere queste costruzioni, talora con motivazioni quasi bislacche. La frase scissa (del tipo: è Cognetti che ha vinto il Premio Strega), per esempio, è stata rifiutata dai puristi perché ritenuta un francesismo settecentesco; recentemente, invece, si è scoperto che esisteva, in italiano, da molto prima, anche in forme sconosciute al francese. Oggi nessuno si sognerebbe di censurare questi costrutti, presenti nel parlato di tutti i giorni ma anche negli scritti più formali. È bene, dunque, che anche i manuali di grammatica e gli insegnanti ne tengano conto, dando di queste frasi un’opportuna descrizione”.

Come si pone tra l’impianto classificatorio della grammatica tradizionale e quello più libero e “possibilista” della grammatica moderna?
“Mi colloco in una posizione di compromesso. La grammatica tradizionale, nel mio libro, non è rifiutata in blocco, per almeno due ragioni: la prima è essa che rappresenta un sapere condiviso – l’unico posseduto, nella migliore delle ipotesi, dai non linguisti -, da cui non si può prescindere; la seconda è che essa contiene concetti e termini che possono essere e di fatto sono recuperati anche dalla cosiddetta ‘grammatica moderna’. Per me, tuttavia, la grammatica tradizionale è un punto di partenza, non di arrivo; la linguistica più recente, usata con intelligenza, mi permette di superare alcune difficoltà che la grammatica incontra nel descrivere la frase e spiegarne il funzionamento. Faccio un esempio: la nozione tradizionale di complemento, perno della cosiddetta “analisi logica”, è palesemente insoddisfacente. I poveri scolari passano settimane, mesi a imparare lunghe liste di complementi, con distinzioni talora maniacali e perfino grottesche – un complemento di prezzo distinto dal complemento di valore -, per poi trovarsi, in concreto, a non saper dire con certezza se una frase come Abbiamo viaggiato in automobile contenga un complemento di mezzo o di modo. I dubbi, in questo caso, non dipendono dalla scarsa padronanza della grammatica, ma dai limiti di quest’ultima. Ammodernare, con saggezza, è doveroso”.

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