Alessandro Zaccuri torna in libreria con il saggio “Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura”, un affascinante viaggio nel mondo dei rifiuti per scoprire il potenziale (anche economico) dell’immondizia…

Pattume, immondizia, mondezza, sudiciume, lerciume, sporcizia, sozzume, porcheria, rumenta, rusco, scovazze, vunciume, rüera. E poi resti, residui, scarti, scorie, sfrido, colaticcio, risulta, laniccia, fanera. Una difficoltà di nominazione e classificazione che tradisce il timore dell’innominabile, oltre alla consapevolezza dell’inclassificabile.

La letteratura e il cinema, la televisione e le arti visive cercano di testimoniare il rapporto contraddittorio e complesso con la spazzatura, il suo imporsi come principio di realtà rispetto a una realtà che non sappiamo mai decifrare fino in fondo. I rifiuti sono ciò di cui pensiamo di non avere più bisogno, un’eccedenza della quale provvediamo a liberarci ma, nello stesso tempo, anche ciò di cui non riusciamo a sbarazzarci. Sono la permanenza di un passato che, riconsiderato dalla prospettiva del presente, appare sempre più degradato e distante; sono, in modo sottile e a volte inquietante, il segno che lasciamo attraverso il nostro passaggio nel mondo.

Alessandro Zaccuri torna in libreria con un saggio sorprendente, Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura (La Scuola).

L’autore, giornalista e scrittore, collabora con Avvenire, Lo Straniero e Letture. È autore di romanzi e saggi di critica letteraria.

Cattura

Per gentile concessione dell’autore, su ilLibraio.it un estratto da Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura di Alessandro Zaccuri

Dal punto di vista linguistico, la spazzatura è ciò che si oppone alla definizione. In italiano, come in molti altri idiomi, la nomenclatura specifica è talmente variegata da apparire pressoché inesauribile, contaminata com’è con le parlate locali e dialettali: pattume, immondizia, mondezza, sudiciume, lerciume, sporcizia, sozzume, porcheria, rumenta, rusco, scovazze, vunciume, rüera. E poi resti, residui, scarti, scorie, sfrido, colaticcio, risulta, laniccia, fanera. Una difficoltà di nominazione e classificazione che tradisce il timore dell’innominabile, oltre alla consapevolezza dell’inclassificabile. «Una cosa che sfugge alla definizione è automaticamente relegata […] alla condizione di merda – commenta uno dei personaggi in Underworld di Don DeLillo –. Non si può darle un nome. È troppo grande o malefica o estranea alla nostra esperienza».

Una conferma viene dalla tabella che riassume le istruzioni per la raccolta differenziata nel Comune di Milano. Se si fa eccezione per la voce degli Ingombranti (l’unica a riferirsi a un criterio quantitativo, relativo alle dimensioni dei rifiuti), il chaosmos impuro della spazzatura sembrerebbe comporsi di quattro elementi fondamentali, esattamente come il cosmos intatto delle sapienze ancestrali. L’Umido al posto della Terra, il Vetro al posto dell’Acqua, la Carta al posto del Fuoco, la Plastica al posto dell’Etere. Gli accostamenti sono discutibili e perfino intercambiabili, ma non importa. A turbare questo equilibrio illusorio interviene la definizione che personalmente prediligo, perché trovo più onesta nella formulazione, più rispondente alla mia esperienza quotidiana di lotta contro gli scarti.

Si tratta di quella dei Rifiuti Generici: «Tutto ciò che non è oggetto di raccolta differenziata». Nessun criterio qualitativo. Il rifiuto generico (il Rifiuto nel suo assetto ideale, saremmo tentati di dire: l’idealtipo della monnezza) è qualcosa che non è qualcos’altro. Sfugge al riconoscimento, ma anche alla misurazione, dato che – subito dopo aver escluso la pertinenza alla raccolta differenziata – l’etichetta tiene a precisare: «No ingombranti». E poi, sostenuta dalla medesima negazione, un’altra postilla, ancora più sorprendente: «[No] rifiuti pericolosi come pile, farmaci e lampadine». Non è energia, non è cura, non è neppure luce. Privato di ogni qualificazione e quantificazione, il Rifiuto è un “quasi niente”. Meglio, è quanto di più simile al niente sia dato di incontrare nella nostra quotidianità. Il resto, e non il niente, è il contrario del tutto, come sostiene Jean Baudrillard: la nascita e la morte, la sessualità, la stessa esperienza sociale. «Tutto il reale è residuale – scrive il filosofo francese –, e tutto quello che è residuale è destinato a ripetersi indefinitamente nel fantasma». La ripetizione, non il resto, è l’impronta infernale della spazzatura.

Tecnicamente l’indifferenziato è il tal quale, massa non trattata e probabilmente intrattabile. È il reale nella sua impossibilità, se vogliamo attenerci alla distinzione operata da Jacques Lacan, per il quale alla struttura simbolica della Realtà si contrappone costantemente qualcosa che sfugge, qualcosa di irriducibile a ogni strutturazione e simbolizzazione: il Reale, appunto, che è scarto dalla Realtà, eccedenza da ogni sistema. Muovendo dall’ammissione per cui «le Réel, c’est l’impossible», Lacan elabora la teoria dell’«oggetto piccolo (a)», che è residuo e atto di resistenza rispetto a ogni tentativo di riduzione simbolica. L’oggetto piccolo (a) è il “resto reale”, è il Rifiuto Generico del Comune di Milano, sono le petulanti cartacce da cui ingenuamente cerco di liberarmi ogni volta che per strada incrocio un cestino. Eccede, ed eccedendo permane.

«Tel Quel» è stata anche la testata di una delle più agguerrite riviste della neoavanguardia europea, pubblicata a Parigi dal 1960 al 1982. Il periodo, osserva Gianni Celati, in cui l’archeologia del tal quale si prefigge di governare il chaosmos della contemporaneità, finendo però per arrendersi allo status quo del marasma. Perché, come scrive Celati in uno dei saggi di Finzioni occidentali (1975), non ci sono alternative: o l’archeologia del residuale è «una magra filosofia eraclitea» (tutto scorre, nulla ha importanza) oppure è «niente, risvolto della Storia, storia al negativo, antistoria».

A quarant’anni di distanza possiamo arrischiarci a dire che è andata diversamente: abbiamo capito che non è più possibile pensare, rappresentare e raccontare il mondo senza pensare, rappresentare e raccontare i rifiuti. In forma magari consolatoria, come accade nel romanzo Second Hand dello statunitense Michael Zadoorian (2000), imperniato sul fascino degli oggetti di seconda mano («sono convinto che quando possiedi qualcosa che è appartenuto a un’altra persona, stabilisci un contatto segreto con lei, con il suo passato») o nel film La febbre, diretto da Alessandro D’Alatri nel 2005, con Fabio Volo nel ruolo del protagonista Mario, architetto mancato che sfugge al grigiore di un impiego pubblico scoprendosi scultore di opere ricavate dai rottami.

Ma ci sono anche racconti più complessi, meno concilianti. Nell’intelligente romanzo d’esordio di Walter Fontana, Splendido visto da qui (2014), la sincerità è un attributo ormai riservato in esclusiva alla spazzatura. Tutto il resto è finzione, una messinscena più o meno liberamente accettata dalla popolazione di un’Italia divisa in cinque zone, ciascuna delle quali rinchiusa nella ripetizione dello stesso decennio: a Sessanta si ascoltano i Beatles, a Settanta ci si appassiona per la politica, a Ottanta la novità è una cantante che si fa chiamare Madonna, a Novanta la tecnologia inizia a manifestarsi e a Zero trionfa indisturbata. Quando il ciclo viene al termine, anziché progredire nell’epoca successiva, ogni zona ricomincia da capo, all’infinito. Al Riassortimento decennale (via tutto quello che è venuto nel frattempo, la decade deve recuperare la sua verginità) provvede un corpo di nettezza urbana molto simile ai vigili del fuoco del classico Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953), vale a dire una sorta di psicopolizia che ha il potere di denunciare i trasgressori. Leo è uno di questi spazzini-vigilantes, tormentato com’è giusto (lo era anche il Montag di Bradbury) eppure infallibile nello scovare la presenza del minimo «rifiuto anomalo»: che cosa ci fa in un cassonetto di Settanta l’involucro di un gelato con data di scadenza al novembre 2009? Questa e simili discrepanze rivelano l’operato di un traveller, uno dei contrabbandieri temporali che movimentano manufatti da un decennio all’altro, introducendo un elemento di disordine nell’ordine costituito della scansione cronologica ricorsiva.

La distopia di Splendido visto da qui non è una celebrazione del passato, ma un modo per tenere a bada la paura del futuro. Meglio ancora, per «tagliare i ponti col futuro», come promette la propaganda di regime. «Mi piace quando le cose si ripetono», ammette Leo all’inizio del libro, individuando con esattezza lo specifico della spazzatura, il nucleo ideale del Rifiuto Generico in tutta la sua imponenza. Nel 2013 un altro scrittore italiano, Demetrio Paolin, ha tenuto il diario dei rifiuti prodotti dalla sua famiglia nell’arco di una settimana, giungendo alla stessa conclusione:

L’inferno è ripetizione. L’elencazione riporta una serie di costanti. Un tempo, nella società che produceva la merce, la ripetizione era dell’operaio. L’operaio passava la sua vita nella catena di montaggio a compiere sempre gli stessi riti per produrre sempre le stesse cose. Oggi tale destino è riservato a chi consuma, produciamo rifiuti tutti uguali, ogni giorno medesimi, gli stessi biscotti, lo stesso numero di piatti. È la vita nostra: come se alle merci fossimo stati sostituiti noi. La ripetizione è il primo momento in cui il male filtra nel mondo, è il suo inserirsi liquefatto nelle attività della vita. Guardare ciò che si produce e sapere che nei prossimi anni sarà sempre così è l’idea stessa che questa vita non ha senso, è una favola vuota.

L’insensatezza della dissipazione, la tragedia di un’eccedenza senza rimedio: questo è il sospetto che la spazzatura non manca mai di generare. Eppure, come scrive lo stesso Paolin, «la spazzatura è il nostro resto e la salvezza, lo dice la Bibbia, è nel resto e non nell’intero». I rifiuti alludono alla permanenza di un senso, nonostante tutto, non solo allo spreco di quella «favola vuota» in cui si avverte l’eco non involontaria del Macbeth shakespeariano e del suo lamento sulla vita, «storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla».

Proprio perché significa quasi nulla, la spazzatura è degna di essere indagata e raccontata. Lo si può fare con metodo e applicazione, seguendo l’esempio dello statunitense Jonathan Miles che nel romanzo Scarti (2013) allestisce una meticolosa rassegna narrativa dell’immondizia: tutti i personaggi, nessuno escluso, hanno a che vedere con i rifiuti, e il destino di ciascuno si compirà, in un modo o dell’altro, dalle parti di un cassonetto. Cibo da recuperare tra gli avanzi di supermercati e ristoranti, dati sensibili da trafugare per avere libero accesso a carte di credito e conti correnti, oggetti di cui disfarsi, email a cui estorcere segreti, scorie neuronali che si depositano nel cervello scatenando l’Alzheimer, perfino un neonato da strappare all’abbandono, come succedeva ai vecchi tempi.

In alternativa, ci si può attenere alla funambolica sapienza letteraria di Eugenio Baroncelli, un autore italiano di sublime eccentricità, che nel 2014 ha raccolto sotto il titolo Gli incantevoli scarti una manganelliana collezione di «cento romanzi in cento parole». Tra cui questo, C’è, sulla decadenza inarrestabile degli oggetti:

C’è la patina opaca sulla membrana. C’è la muffa sulla pagina del libro. C’è la macchia (da quando?) sul soffitto. C’è la goccia sulla bocca del rubinetto perfettamente chiuso. C’è la falla nella stiva del frigo. C’è il filamento che scurisce nella lampadina. C’è la bava del vento sul mare irreprensibile. C’è un grammo di follia nella cellula. C’è, sul divano, un imprudente pulviscolo di lanugini del cardigan di Elena. C’è il buco nel calzino rassegnato. C’è la bufera nel guardaroba – grucce che volano, abiti che si sformano. C’è, credo, la sostanza del mondo. Queste cose, forse, sono il romanzo.

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Fotografia header: Stack of plastic bottles for recycling against blue sky

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