Su ilLibraio.it un capitolo dal saggio-reportage di Jorge Carrión, dedicato, in particolare, alle “librerie ineluttabilmente politiche”: da Bratislava a Berlino, ecco un viaggio nel ‘900, ricco di citazioni letterarie

Su ilLibraio.it un capitolo da Librerie

LIBRERIE INELUTTABILMENTE POLITICHE

Ordiniamo altresì che da qui in avanti nessun libraio, mercante di libri o altro osi portare in questi luoghi Bibbie o Vangeli nelle edizioni corrotte sopra citate o in altre che contengano errori di sorta,

anche nel caso in cui questi siano stati corretti come si suole ora correggere gli errori nelle Bibbie e nei Vangeli che già circolano nei nostri luoghi, sotto le pene indicate in questo documento.

Francisco Fernández del Castillo, Libros y libreros en el siglo XVI.

Un poster di Cicciolina quando ancora era un’attrice porno e prima che entrasse in politica, con le labbra di un rosso acceso e un vestito scollato e subito accanto una veduta fotografica del vicino quartiere barocco. Un buon assortimento di novità e riviste di diversi paesi tra macchie alle pareti e lampadine bruciate che pendono inutilmente dal soffitto. Queste le contraddizioni che trovai quando all’inizio di questo secolo entrai nella libreria La Reduta in via Palackého a Bratislava, nelle vicinanze di un parco, un luogo tranquillo malgrado le scintille intermittenti che i tram provocavano al loro passaggio. La sensazione era quella di trovarsi dinnanzi a uno spartiacque, a cavallo tra due momenti storici, tratto comune a tutti i luoghi che hanno conosciuto il comunismo. Sugli espositori era dedicato uguale spazio alla letteratura ceca e slovacca ma le novità erano principalmente in slovacco, quasi a sottolineare con orgoglio un certo stato della questione all’interno di un processo di lentissima transizione. La stessa atmosfera si respira ancora in tutta Berlino. Se da Alexanderplatz si imbocca l’ampio viale di impronta socialista nato come Stalinallee e in seguito ribattezzato Karl-Marx-Allee, così largo che potrebbe sfilarci un intero esercito con diversi carri armati disposti uno accanto all’altro, sorprende come in questa megalomania spaziale, in questo scenario perfetto per l’intimidazione politica, sia data così tanta enfasi alla cultura. La prima cosa che si vede, infatti, è il grande murale del Haus des Lehrers, con la sua colorata e pedagogica esaltazione del mondo del lavoro.
Poco dopo, sulla sinistra, compare la facciata del Kino International, che dal 1963 ospita le prime della DEFA (Deutsche Film AG). Da lì si susseguono il Café Moskau, il Bar Babette, il ČSA Bar, fino ad arrivare alla Karl Marx Buchhandlung, la vetusta libreria comunista alla cui sinistra si trovava il vecchio Rose-Theater e che dal 2008, anno della sua chiusura, è diventata sede di una casa di produzione cinematografica. Due anni prima di cessare la propria attività, la libreria fu scelta come ambientazione della scena finale di Le vite degli altri, un film che in buona sostanza parla di lettura.
Il capitano della Stasi Gerd Wiesler, infatti, che nei suoi rapporti si firma HGW XX/7, trascorre tutto il proprio tempo leggendo (ascoltando) la vita quotidiana dello scrittore Georg Dreyman e della sua compagna, l’attrice Christa-Maria Sieland. In uno dei momenti cruciali del film la spia sottrae un libro di Bertolt Brecht dalla biblioteca di Dreyman. Da lì si apre una crepa attraverso la quale riesce timidamente a insinuarsi il dissenso. Se questo libro diventa infatti il simbolo di una lettura che dissente, una macchina per scrivere importata clandestinamente dall’Ovest – all’epoca i servizi segreti controllavano tutte le macchine per scrivere della DDR – assurge a emblema di una scrittura di contestazione. È sui tasti di questa macchina che Dreyman, fino a quel momento vicino al regime ma disilluso per la persecuzione cui sono sottoposti i suoi amici e l’infedeltà della sua compagna (che ha accettato di andare a letto con un ufficiale per non essere condannata all’ostracismo), scrive un articolo sul tasso sorprendentemente alto di suicidi nella DDR che il governo mantiene nascosto.
Il pezzo può essere pubblicato sullo «Spiegel», poiché Wiesler ha cominciato a simpatizzare con i due e a proteggerli, stilando rapporti in cui non fa menzione delle attività sospette che hanno luogo nella loro abitazione. Grazie a lui la macchina per scrivere non viene rinvenuta nel corso di una perquisizione e Dreyman non deve pagare le conseguenze del suo tradimento, anche se Christa-Maria muore accidentalmente durante l’ispezione. Quando il suo superiore capisce – a ragione, pur in mancanza di prove – che la spia è passata nello schieramento avversario, declassa Wiesler relegandolo a un lavoro di semplice lettura: è assegnato al servizio postale, e il suo incarico consiste nell’aprire le lettere degli individui sospetti e nel leggere la corrispondenza privata di coloro che potrebbero passare informazioni al nemico o cospirare per rovesciare il regime.
Dopo la caduta del Muro, lo scrittore accede agli archivi della Stasi e scopre l’esistenza dell’informatore e i suoi rapporti su alcuni avvenimenti che fino a quel momento non era stato in grado di interpretare. Lo cerca. Ora fa il portalettere: distribuisce di casa in casa buste chiuse, protette dal diritto alla privacy. Dreyman non trova il coraggio di parlargli. Due anni più tardi, Wiesler passa davanti alla Karl Marx Buchhandlung e, riconoscendo Georg Dreyman nella locandina che in vetrina annuncia la pubblicazione di un suo nuovo libro, entra nella libreria.
Il libro è dedicato a HGW XX/7. «È per un regalo?» gli chiede il cassiere. «No, è per me», risponde. Il film si chiude con questa battuta, in questa libreria che oggi è diventata un enorme ufficio ma i cui scaffali riconosco sia per averla vista nel film sia per averla visitata più volte nel 2005, quando fotografai il murale di Karl Marx dal volto viola e barbuto nascosto in un angolo del locale. Vestigia del passato.
Nel suo romanzo Europe Central, William T. Vollmann entra nella mente di una di quelle spie ai cui occhi gli esseri umani, dei quali costantemente leggevano la vita, si tramutavano in veri e propri personaggi letterari. Una mente critica e censoria: incaricato di seguire i passi di Achmatova, scrive ricorrendo a una metafora che l’apparato stalinista seppe rendere reale: «L’ideale sarebbe stato toglierla di mezzo e poi dare la colpa ai fascisti». Alludendo a un invio di materiale sovversivo molto più compromettente dell’articolo scritto da Dreyman ne Le vite degli altri, la spia afferma: «Fosse stato per me, Solženicyn non sarebbe mai riuscito a far arrivare dall’altra parte il suo velenoso Arcipelago Gulag».
Vollmann evoca la frenesia dei chioschi di libri sulla prospettiva Nevskij, l’arteria culturale di San Pietroburgo, dove Lenin acquistava i propri testi nella libreria Sitin e, insieme con la libraia Alexandra Komikova, che inviava in Siberia ciò che le chiedevano i militanti della rivoluzione al confino, fondò la rivista marxista necessaria alla diffusione della causa. Per Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Lenin ottenne un contratto per la pubblicazione di 2400 copie e con l’anticipo sui diritti d’autore riuscì a comprare dalla Komikova i libri di cui aveva bisogno per il proprio saggio.
Con un’onestà non troppo frequente in ambito letterario, Vollmann riconosce quale modello per il suo romanzo Una tomba per Boris Davidovič di Danilo Kiš, in cui toccano il loro apice le contraddizioni politiche delle dittature del proletariato e delle loro costruzioni sociali fondate sull’esistenza di schiere di lettori di vite quotidiane e su transazioni prettamente testuali. Libri proibiti, censura, traduzioni autorizzate o negate, accuse, confessioni, formulari, rapporti: scrittura. Basata sul sospetto, nata dall’orrore: scrittura. Nello scontro finale tra il prigioniero Novskij e il torturatore Fedjukin, che tenta di strappargli una confessione completa, Kiš condensa la natura di ciascuna di queste relazioni tra intellettuali e oppressori che, come in una barzelletta razzista, si ripropongono in tutte le società rette da una dittatura. Come accade anche nell’Enciclopedia dei morti, lo scrittore serbo parte da Borges. Ciononostante, in questo caso sceglie questo modello per politicizzarlo, introducendo nel proprio racconto un compromesso estraneo all’originale:

Novskij rallenta l’istruttoria, tentando di inserire nella propria confessione, senza dubbio l’unico documento destinato a rimanere dopo la sua morte, alcune formulazioni che potrebbero non solo attenuare la sua caduta finale, ma altresì suggerire a un futuro ricercatore, mediante l’abile orditura di contraddizioni ed esagerazioni, che l’intero edificio della sua confessione poggia sulla menzogna indubitabilmente estorta con la tortura. Perciò lotta con forza insospettata per ogni parola, per ogni frase. […] Riteniamo che entrambi agissero per motivi che trascendevano fini egoistici e meschini: Novskij lottava per salvaguardare, nella propria morte e nella propria caduta, non solo la dignità personale, ma anche quella, in generale, del rivoluzionario, mentre Fedjukin, nella sua ricerca di un’impostura e dei suoi presupposti, si sforzava di salvaguardare la severità e la coerenza della giustizia rivoluzionaria e di coloro che la amministrano; poiché è meglio che perisca la cosiddetta verità di un solo uomo, di un minuscolo organismo, piuttosto che siano messi in dubbio, per causa sua, princìpi e interessi superiori.

Se la Karl Marx Buchhandlung è stata la libreria più emblematica di Berlino Est, l’Autorenbuchhandlung è stata e continua a essere la più importante della parte ovest della città. Non a caso, nella Berlino divisa Charlottenburg era il centro della parte federale e la libreria si trova a pochi passi da Savignyplatz, nei pressi della via che ispirò a Walter Benjamin la scrittura di Strada a senso unico, manuale urbano che – come Le città invisibili di Italo Calvino – consente al lettore di orientarsi in tutte le socio-geografie metropolitane del mondo. L’inaugurazione fu presieduta da Günter Grass, anche se, perché fosse chiaro che la libreria non si sarebbe limitata soltanto alle espressioni più solenni della letteratura, dopo qualche settimana toccò a Ginsberg – che compare ancora una volta nelle pagine di questo libro – reinaugurarla con un reading di poesia. Fino alla caduta del Muro fu un centro di dibattito su comunismo e democrazia, repressione e libertà, con ospiti del calibro di Susan Sontag e Jorge Semprún.
Negli anni Novanta, si consacrò alla letteratura della Germania orientale, con l’intento di riscattarla.
La sua principale particolarità – come il suo nome lascia presagire – è l’essere stata fondata da un gruppo di scrittori che s’impegnarono a difendere la letteratura tedesca da loro stessi prodotta e letta. Nell’aspetto, l’Autorenbuchhandlung assomiglia alla barcellonese Laie, alla portegna Eterna Cadencia o all’istanbuliota Robinson Crusoe: sobria, elegante, classica. Non deve stupire che sia il luogo dove il protagonista di Il giorno dei morti, un romanzo di Cees Nooteboom con manifeste ambizioni europeiste, va a comprare i propri libri. L’asse intorno al quale ruota Europe Central è quello russo-tedesco.
Nel romanzo di Nooteboom leggiamo:

[…] pareva che quei due paesi provassero un reciproco desiderio incomprensibile a un atlantico olandese, come se quella sconfinata pianura che sembrava aver inizio a Berlino esercitasse una segreta forza d’attrazione, da cui prima o poi doveva nuovamente prodursi qualcosa, qualcosa che non era ancora attuale ma che, nonostante sembrasse il contrario, avrebbe di nuovo sovvertito la storia europea, come se quell’immensa massa di terra potesse rivoltarsi facendo scivolare via la periferia occidentale come una coperta.

I regimi di Stalin e Hitler furono due bombe atomiche fatalmente simili che deflagrarono simultaneamente in due zone geografiche condannate a dialogare tra loro almeno da quando l’ebreo prussiano Karl Marx aveva elaborato le proprie idee politiche. Negli anni trascorsi in seminario, il giovane Stalin, sospettando che i titoli che prendeva in prestito presso la biblioteca pubblica venissero registrati e temendone le possibili conseguenze, cercava libertà di lettura nella libreria di Zakaria Chichinadze. All’epoca a San Pietroburgo la censura zarista era rigida e a Mosca s’incoraggiava la produzione, localizzata principalmente lungo via Nikolskaya e nei dintorni, di lubki – l’equivalente russo dei chapbooks o dei pliegos sueltos (fascicoli sciolti) – che esaltavano la figura dello zar, narravano grandi battaglie o riproponevano racconti popolari suscitando l’indignazione degli intellettuali prerivoluzionari, per i quali queste stampe erano retrograde, antisemite e filo-ortodosse. Dopo la rivoluzione del 1917, i lubki furono fatti scomparire. Fu nella libreria di Chichinadze che avvenne il Grande Incontro: Stalin ebbe accesso a tutte le opere di Marx. Anni dopo, il mitomane avrebbe reinterpretato quell’esperienza raccontandola in toni avventurosi. Secondo la sua versione, infatti, lui e i suoi compagni si intrufolavano di nascosto nella bottega di Chichinadze e, in mancanza di soldi, copiavano a turno i testi proibiti. Così scrive Robert Service nella sua biografia del dittatore e genocida sovietico:

Chichinadze apparteneva alla schiera degli oppositori alla dominazione russa a Tbilisi. Quando i seminaristi si presentarono nella sua libreria, li accolse senz’altro cordialmente. E se veramente copiarono dei libri, non v’è dubbio che lo fecero su sua esplicita o implicita autorizzazione. Per l’élite intellettuale cittadina la diffusione delle idee era più importante del semplice profitto. Era una battaglia che i liberali potevano appena sperare di aiutare a vincere. La bottega di Chichinadze era una vera e propria miniera per quel tipo di libri che i giovani cercavano. A Iosif Džugašvili piaceva Novantatré di Victor Hugo ed era stato punito per averlo introdotto di nascosto nel seminario. Quando nel novembre del 1896, in seguito a un’ispezione, fu scoperta una copia de I lavoratori del mare dello stesso autore, il rettore Germogen lo castigò, costringendolo a una «prolungata permanenza» in cella d’isolamento. Secondo l’amico Iremashvili, il gruppo possedeva anche copie delle opere di Marx, Darwin, Plechanov e Lenin, come rivelò lo stesso Stalin nel 1938, quando raccontò che ogni membro aveva contribuito con cinque copechi a prendere in prestito Il capitale di Marx per due settimane.

Una volta salito al potere, Stalin mise in atto un complesso sistema di controllo dei testi, in parte anche grazie a queste sue esperienze personali che gli avevano mostrato come ogni forma di censura possedesse inevitabilmente dei punti deboli. Da sempre i libri sono stati fondamentali per il controllo del potere e i governi hanno creato meccanismi di censura libraria allo stesso modo in cui hanno edificato castelli, fortezze e bunker che – inevitabilmente – sono stati tutti conquistati o distrutti, ignorando quanto già aveva scritto Tacito: «Il talento perseguitato acquista prestigio, e i re stranieri e coloro che li imitano usando la stessa ferocia hanno procurato solo vergogna a sé stessi e gloria ai perseguitati». Fu sicuramente dopo l’introduzione della stampa che gli stati cominciarono a incontrare seri problemi nella lotta contro il traffico dei libri proibiti; ed è stato con le dittature moderne che dal rogo pubblico di libri si è tratto maggior credito politico, in un’epoca in cui le nazioni investivano enormi quantità di denaro pubblico negli organi di lettura.

L’AUTORE – Jorge Carrión, classe ’76, insegna letteratura contemporanea e scrittura creativa presso l’Universidad Pompeu Fabra di Barcellona. E collabora come critico per varie testate come El Pais e Letras Libres. E’ in uscita per Garzanti Librerie, reportage autobiografico in cui compie un giro per il mondo (e un viaggio nel tempo): un libro (da cui è tratto questo capitolo pubblicato per gentile concessione dell’editore) di grande fascino, tutto dedicato ai librai e ai loro negozi…

 

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