Quella di Ta-Nehisi Coates in pochi anni è diventata la voce attraverso cui l’America di Obama e di Trump si è dovuta confrontare con il suo passato. “Una lotta meravigliosa”, il racconto della sua giovinezza nei quartieri difficili di Baltimora, “Tra me e il mondo”, una lettera al figlio su cosa significa essere nero e i suoi articoli-evento sull’Atlantic (raccolti in “Otto anni al potere”) sono testi imprescindibili per comprendere la profondità e la complessità del discorso sul razzismo, che non smette di suscitare polemiche. Al centro delle quali spesso si trova proprio il giornalista e saggista – L’approfondimento

Negli ultimi anni Ta-Nehisi Coates, giornalista – per l’Atlantic – e scrittore, è passato dal perdere tre collaborazioni giornalistiche di fila a essere considerato uno dei più importanti intellettuali americani, anzi, secondo molti forse il più importante. Figura tra le cento persone più influenti del mondo del Times, i suoi articoli vengono accolti come un evento, i suoi libri sono materia di studio in più di 400 college in America. Ha ottenuto il Genius grant della MacArthur Foundation, una borsa di studio conferita, a chi, per l’appunto, è considerato un genio. Nello specifico perché ha saputo raccontare la complessità della discussione su razza e razzismo, riuscendo ad avere un impatto a livello nazionale.

Questo durante la prima presidenza nera degli Stati Uniti, che per qualche tempo ha fatto parlare della fine del razzismo e dell’inizio di una società post-razziale (si citavano le statistiche secondo cui per i millennials la razza non era un problema). Una previsione presto contraddetta – se non dalla realtà – dal movimento Black Lives Matter, nato per contrastare la violenza della polizia sui neri.

Qualche dato: nel 2017 il 25% delle persone uccise dalla polizia erano nere, pur essendo il 13% della popolazione. Tamir Rice, per esempio, è stato ucciso a 12 anni perché impugnava in un parco una pistola giocattolo. Nel 99% dei casi (non è un’iperbole) non solo nessuno è stato condannato per un crimine, ma nemmeno ritenuto responsabile.

Coates alla società postrazziale non ha mai creduto e, anzi, sull’esempio di James Baldwin, (“La storia è intrappolata dentro le persone e le persone sono intrappolate dentro la storia”) non ha fatto altro che cercare di dimostrare il contrario. Così, ha scritto i testi fondativi di Black Lives Matter (per Zinzi Clemmons) e ha colmato il vuoto lasciato da Baldwin (per Toni Morrison); in pratica, anche se ha dichiarato più volte di mal sopportarlo, ricopre il ruolo simbolico di autorità morale sulla questione razziale americana. Vale a dire che racconta, incessantemente, la storia di corpi, di ferite e di sangue.

Sangue, anzitutto, significa eredità familiare. È il figlio di William Paul Coates, una figura complessa raccontata nel memoir Una lotta meravigliosa, che verrà presto pubblicato in italiano da Codice (trad. di Chiara Stangalino). Ta-Nehisi Coates è cresciuto nella Baltimora di The Wire dove gli anni Ottanta della Reaganomics sono stati quelli dell’epidemia di crack nella comunità nera; la morte e la violenza erano la quotidianità (“Le persone cominciavano a morire tutto attorno a noi”). Dove non era strano imbattersi in bambini che puntavano una pistola, ma vera (come successo allo scrittore, a undici anni).

Paul Coates era un veterano del Vietnam e, poi, inaspettatamente il capitano di zona delle Black Panthers. Le ammirava e condivideva i loro ideali, ma non ne faceva parte. Nel 1970 stava aiutando alcuni membri a caricare dei fucili in una macchina – legalmente – ma, insomma, l’Fbi di Hoover li considerava il nemico numero uno e dunque la polizia si presentò e arrestò tutti. Dopo essere stato rilasciato sotto cauzione la settimana successiva Paul si mise in contatto con i capi del movimento: “Chi è rimasto?” gli chiedono; nessuno. “Tu”. “Ma io non sono una Pantera”. “Da ora sei una cazzo di Pantera!”. Oggi Ta-Nehisi Coates cura le pubblicazioni di Black Panther, il supereroe nero, per la Marvel; tra poco curerà anche Capitan America.

All’attività politica affiancava la passione – l’orgoglio – per la storia africana e afromericana, per cui per quarant’anni ha pubblicato con una piccola casa editrice i testi dimenticati della black culture.

Coates ne porta il segno: “Ta-Nehisi” è un nome antico con cui gli egiziani chiamavano la Nubia, la terra dell’oro, la terra di Dio. Una regione che si associa all’orgoglio di appartenere alla comunità nera. Suo figlio, Samori, porta il nome di Samori Touré, sovrano africano del gruppo Mande (un terzo dei mandingo furono deportati in America) che combatté i francesi “per il diritto di possedere il proprio corpo nero”. Morì dopo 3 anni di prigionia. In Tra me e il mondo (Codice, 2015, trad. C. Stangalino) Coates precisa: “e questo, è il senso più profondo del tuo nome, Samori, che la lotta in sé e per sé ha un significato”.

La lotta è l’unico orizzonte possibile per Coates. Ne condiziona addirittura i tratti espressivi. Le sue interviste per esempio sono stranianti, un continuo saggio della complessità dell’essere umano. Quando parla si avvicina molto al tono di voce con cui scrive (highly distinctive, per la MacArthur Foundation): è appassionato in una maniera gentile, fatta di sorrisi, di una forma di mitezza naturale, dell’abilità nel trovare un aneddoto capace di illuminare la sua argomentazione; ma questo è coordinato a una rabbiosa, glaciale, programmatica e ragionata assenza di qualsiasi speranza. Politica, nel suo essere l’opposto dell’Hope di Obama. Per questo c’è chi lo chiama un afropessimista. In realtà il suo pessimismo deriva dal modo con il quale articola la sua visione del razzismo.

SC: “Hai qualsiasi speranza oggi per le persone là fuori su come possiamo avere una nazione migliore, dei rapporti migliori tra le razze, una politica migliore?”. T-NC: “No”. (Risate)  

Anche Tra me e il mondo, che ad oggi è il suo libro più importante, si apre sulla tristezza provata da Coates di fronte a chi gli parla di speranza. È una riflessione, scritta sul modello di La prossima volta il fuoco di Baldwin, come una lettera al figlio. Una lettera amara e arrabbiata su cosa significa essere neri in America, sulla distanza che stabilisce con il mondo. “La distanza si fa riconoscere nei più svariati modi” – scrive – “una ragazzina di sette anni torna a casa da scuola, dove l’hanno presa in giro, e chiede ai suoi genitori: ‘Ma noi siamo negri? E cosa vuol dire?'”.

Le differenze etniche (e, naturalmente, quelle di genere o di orientamento sessuale) non hanno nulla di intrinseco, ma sono i confini attraverso i quali si articola – per sottrazione – un’identità (“Il negro, il frocio, la puttana gettano una luce sul confine, mostrano ciò che noi visibilmente non siamo, illuminano il Sogno, di essere un Uomo”).

Non esiste l’essere bianchi, ma ci sono “coloro che si pensano bianchi”: cioè, chi si elegge a depositario di un modello di vita che contempla l’uguaglianza, il successo, la ricerca della felicità per qualcuno, a discapito di altri. Non è accidentale, ma un modello che si fonda precisamente su questa esclusione (“In America la distruzione del corpo nero è un retaggio culturale”). Il privilegio si fonda sulla rapina e sulla violenza. Non è dalla razza che dipende il razzismo, ma il rapporto è inverso: dal razzismo deriva la razza. Del resto, che le caratteristiche esteriori stiano a significare degli attributi di valore è qualcosa di storico: è un’invenzione moderna che mira “a negare il diritto di proteggere e controllare il nostro corpo”.

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Infatti, argomenta Coates, il razzismo, come struttura, è un elemento istituzionale: è una serie di sistemi dentro altri sistemi, di regole e di codici che operano precisamente allo scopo per cui servono. Ma le sue manifestazioni cambiano nel tempo; sono storiche, culturali. Gli italiani, per esempio, si sa, non erano considerati bianchi, ma forse non tutti sanno che per qualcuno erano proprio neri. Per lo scienziato William Z. Ripley, autore di La razza. Uno studio sociologico (1896), l’Africa cominciava dai Pirenei. Lo desumeva da una complicata correlazione lombrosiana tra dati antropometrici, geografici e la misura del volume del cranio. È famoso il caso di Jim Rollins contro lo stato dell’Alabama. Rollins, nero, doveva rispondere alle accuse di miscegenetion (“mescolanza di razze”) per aver avuto rapporti sessuali con una donna bianca, ma fu assolto in appello perché la donna non era bianca, bensì italiana. “Forse essere neri”, scrive Coates, “era solo un modo per dare un nome a coloro che stavano nel punto più basso della scala sociale, agli esseri umani che venivano trasformati in oggetti, oggetti che diventavano paria”.

Accantonate le teorie scientifiche razziste, una differenza continua a esistere, pur cambiando oggetto, metodo, forma o sostanza. Le radici del razzismo non vanno cercate nel sentimento individuale di odio, né nella paura dell’altro, ma nei modi dell’esclusione, del dominio, della gestione dell’accesso a quello che Coates chiama il Sogno. Il resto è un dispositivo storico.

E non c’è davvero nulla di astratto, ma è qualcosa di estremamente concreto, “è un’esperienza viscerale, che stacca pezzi di cervello, blocca vie respiratorie, strappa muscoli, estrae organi, spacca ossa, rompe denti. Non devi mai distogliere lo sguardo. Devi ricordare sempre che la sociologia, la storia, l’economia, i grafici, le carte, l’analisi delle regressioni, tutto questo atterra, con grande violenza, sul corpo”. La speranza, in questo senso, è una trappola, perché godere del Sogno, significa voler partecipare a una struttura che a priori esiste perché ti esclude.

Coates spesso si è distinto nel criticare anche chi ce l’ha fatta, in primis Obama. Farcela per un nero significa, come consigliano i genitori, impegnarsi il doppio; un modo diverso per dire che è giusto accontentarsi della metà. “I Sognatori citano Martin Luther King e predicano la non violenza per i più deboli e armi più grandi per i potenti”. Qualcosa di profondamente ingiusto: una cultura dice a qualcuno che tutto gli appartiene e che ha diritto di fare qualsiasi cosa; e agli altri dice di adeguarsi. A Samori, suo padre, dice di stare sempre attento, perché non c’è nulla di radicale nell’affermare, per esempio, che “alla polizia del tuo paese è stata conferita l’autorità di distruggere il tuo corpo”.

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Questa visione anima gli articoli che scrive sull’Atlantic. The Case for Reparations, che in Italia è diventato un libro, Un conto ancora aperto (Codice, trad. Daria Restani), è quello che lo ha definitivamente consacrato. Un saggio che dipinge il basso continuo della segregazione dei neri attraverso la descrizione del mercato immobiliare nella sua evoluzione storica: dalla schiavitù, all’America delle leggi Jim Crow, al redlining – la pratica sistematica di rifiutare servizi, come la concessione di credito a specifiche comunità, spesso per motivi razziali – fino alla speculazione sui mutui subprime. Ne risulta un’argomentazione potente: le radici della democrazia americana, la sua ricchezza, si fondano sulla distruzione dei neri. “Attraverso la creazione di una società di schiavi l’America ha potuto gettare le basi economiche per il suo esperimento democratico”. Dunque, chiede, sul modello delle riparazioni concesse dalla Germania agli ebrei, delle riparazioni per la comunità afroamericana. Una richiesta tradizionalmente associata alle frange più radicali del nazionalismo nero, che attraverso la penna di Coates è diventato un tema mainstream, di rilevanza nazionale, su cui si sono dovuti confrontare anche i candidati democratici.

The Case for Reparations figura insieme ad altri saggi (in versione corredata da una nota personale per ogni anno della presidenza Obama), in Otto anni al potere. Una tragedia americana (sarà pubblicato da Bompiani, trad. Giulio D’Antona). Una raccolta che costituisce una sorta di autobiografia intellettuale di Coates e di biografia culturale della presidenza di Obama. Si va dai ritratti di Michelle e Barack Obama, all’eredità della guerra civile, al meccanismo per il quale i neri subiscono delle politiche di incarcerazione di massa, fino, naturalmente all’epilogo, Donald Trump.

Ta-Nehisi Coates

Ta-Nehisi Coates, provocatoriamente, lo definisce il primo presidente bianco: il primo per cui l’essere bianco non è un privilegio passivo, ma, negando attivamente l’eredità della presidenza Obama (Trump fa i primi prassi politici sposando la teoria secondo cui Obama non sia davvero americano: è arrivato a offrire 5 milioni di dollari per far rendere pubblici all’ex presidente i dati del suo passaporto e dell’iscrizione al college), è una forza attiva. “Si dice spesso che Trump non abbia una vera ideologia, ma non è vero: la sua ideologia è il suprematismo bianco in tutto il suo potere violento e bigotto”.

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(grab via)

Al crescente successo di Ta-Nehisi Coates, naturalmente, hanno fatto da contrappunto le critiche. Cornel West, professore di Harvard e a sua volta intellettuale nero, sul Guardian, in un articolo diventato virale, lo accusava di feticizzare il suprematismo bianco, finendo per avere un impatto negativo sulla black struggle, perché ignora le questioni di classe e di genere. Una divergenza che ha subito acquisito un carattere personale, diventando un giudizio sulla sua figura (Coates si è difeso dicendo che, pur avendone parlato, non lo ha fatto spesso, perché non sono la sua area di expertise), che è diventata un campo di battaglia su cui si spalanca l’orizzonte di questioni molto più vaste: lo scontro tra destre e sinistre, tra le diverse posizioni degli intellettuali neri, e quello delle tradizioni di gruppi etnici diversi; quello tra liberal e left, tra identity politcs e questioni di classe, quello generazionale; sui binari dei quali si srotola tutto il panorama frammentato delle varie anime della sinistra.

È difficile stabilire quanto possa esserne responsabile direttamente Ta-Nehisi Coates. Per lui scrivere è un modo per cercare di chiarire, innanzitutto a sé stesso, il mondo. Indagare “il problema di come si debba vivere dentro un corpo nero, all’interno di una nazione perduta nel Sogno”. Vecchia abitudine, sua nonna a quanto pare quando faceva qualcosa di sbagliato lo obbligava a scrivere dei lunghi saggi in cui analizzava le radici del suo comportamento. Scrive per se stesso e, soprattutto, ripete: “La mia ambizione è di scrivere a dispetto della tragedia o della sua possibilità, di continuare a urlare tra le onde, come fecero i miei antenati”. Oggi lo fa sull’Atlantic, da cui si intravede anche il Mediterraneo.

 

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