“Il problema è questo: usiamo Instagram per montare ad arte la vita che vorremmo. Fotografiamo la pizza, ma mai il senso di colpa per le troppe calorie. E no, la foto in cui siamo disperati, sul divano, con i capelli sporchi, non la pubblichiamo. Perché postare l’imperfezione, significa ammetterla, e allora abbiamo imparato a cancellare: ecco la nostra malattia, ecco la nostra fragilità. Se in foto veniamo male, cancelliamo…” – Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Valentina Farinaccio su quella che il “Guardian” ha definito “the age of envy”, un’era in cui, a forza di andare a guardare le storie degli altri, ci siamo ammalati d’invidia

L’erba del vicino è sempre più verde, se il vicino ci aggiunge un filtro Brooklyn, poi, non ne parliamo. Siamo andati tutti ad abitare su Instagram. Mangiamo là, dormiamo là, ci fidanziamo là, facciamo le vacanze là e là, soprattutto, ci separiamo. Smettiamo di seguirci, anzi, o ci blocchiamo, addirittura, per non vedere più che fa, con chi sta, dove va.

La parola storia, diceva la mia professoressa di greco e latino, viene dritta dritta dal verbo vedere: questo è uno dei ricordi più solidi, degli anni di studi classici. Solo che il verbo vedere, intanto, si è fatto ingordo di un sacco di altri significati: conoscere, sì, ma anche innamorarsi, controllare, spiare, scoprire, fino, piano piano, a diventare sinonimo di soffrire. Il Guardian l’ha definita “the age of envy”, la nostra, perché a forza di andare a guardare le storie degli altri, d’invidia ci siamo ammalati.

Niente di nuovo, invidiamo da sempre: lo zaino della compagna di banco, il fisico dell’amica, la piscina del collega, i Natali dei film. Ma questa invidia nuova, questa che conta i like, e che si paragona alla Ferragni, non alla signora che scende in pigiama per firmare la raccomandata, è più perfida. Fa male come fosse vera, pure se viene mossa da ragioni fasulle. Come quella volta che Paolo Maldini si è sposato, e io soffrivo perché mi pareva che il nostro sogno d’amore fosse definitivamente rotto. Avevo 14 anni e mi struggevo davvero, lo giuro, ma per cosa, dato che Maldini era, nella mia vita, soltanto un poster a grandezza naturale attaccato alla porta della stanza?

Si può star male per quello che appare, invece che per quello che è? E si può invidiare perfino la nostra stessa vita social, nel senso di quella che cerchiamo di far credere agli altri, e che però così poco combacia con la vera? Perché sì, il problema è questo: usiamo Instagram per montare ad arte la vita che vorremmo. Fotografiamo la pizza, ma mai il senso di colpa per le troppe calorie. E no, la foto in cui siamo disperati, sul divano, con i capelli sporchi, non la pubblichiamo. Perché postare l’imperfezione, significa ammetterla, e allora abbiamo imparato a cancellare: ecco la nostra malattia, ecco la nostra fragilità. Se in foto veniamo male, cancelliamo. Alla faccia delle nostre infanzie piene di occhi rossi, pance a pieghe, teste tagliate, inquadrature storte.

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Ho passato dei mesi brutti, ultimamente. Quando mi chiedevano come stai, io rispondevo la verità: “Non tanto bene”. Niente d’interessante, se non fosse che la maggior parte delle persone, invece di chiedermi come mai, replicava sbalordita: “Non l’avrei mai detto, sui social sembri così felice!”. Il verbo sembrare, questo siamo diventati. Mettiamo tutte le nostre energie in quelle otto lettere: cinque consonanti, tre vocali. Abbiamo spostato le ragioni della nostra esistenza: non tentiamo più di essere felici, ma di sembrarlo.

Così, il Natale alle porte lo fotograferemo per bene, ci spalmeremo sopra un filtro Idillio e, a chi ci guarda, faremo credere che sia un momento splendido, pure se a Natale ci si scanna, a Natale s’ingrassa, a Natale si sente la mancanza, a Natale non si vede l’ora che le feste siano passate. Non c’è proprio nulla da invidiare, delle vite degli altri. Stiamo messi male tutti alla stessa maniera, coraggio!

L’AUTRICE E IL SUO NUOVO ROMANZO – Valentina Farinaccio è nata a Campobasso e da molti anni vive a Roma. Il suo primo romanzo, La strada del ritorno è sempre più corta (Mondadori, 2016), ha vinto il premio Rapallo Opera Prima, il premio Kihlgren, e Adotta un esordiente. Le poche cose certe (Mondadori, 2018), il suo secondo libro, racconta una storia tanto incantata e feroce allo stesso tempo, di attese e incontri mancati, di errori e di redenzione.
Qui gli articoli scritti da Valentina Farinaccio per ilLibraio.it.

L’APPUNTAMENTO – L’autrice sarà presente il 24 novembre, alle ore 18, presso Libreria Mondadori di Rieti per presentare il romanzo Le poche cose certe.

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