Negli ultimi anni i videogame si sono imposti sempre di più come un fenomeno di massa. Lo dice la crescita del mercato, lo dicono successi planetari come Fortnite e Minecraft, o la vivacità e lo sviluppo del settore dei prodotti indipendenti. Per alcuni il videogioco sarà di certo il medium del ventunesimo secolo. Oggi, però, si stanno imponendo anche come un intero tessuto di metafore capace di parlare della realtà… – L’approfondimento

Secondo Walter Pater, e secondo la nutrita folla che l’ha ripetuto dopo di lui, tutta l’arte aspirerebbe alla condizione della musica. Vale a dire a quell’omologia per cui la forma e il senso sono la stessa cosa. Ma la musica cosa sogna?

Sogna il game design. Sogna di creare mondi paralleli, almeno di recente. Così dice Simon Reynolds – che già ha definito l’ossessione di un’epoca, la retromania, parlando di musica. Svanite le atmosfere da teknival, l’elettronica degli ultimi anni ha virato verso una densità da museo (parla di conceptronica, più che un genere a mode of artistic operation; piovono critiche come su qualsiasi etichetta). E il modo in cui ci starebbe, nei musei, è attraverso una sperimentazione sull’immersione, sul punto di vista e soprattutto attraverso la creazione di mondi.

Il world-building salta fuori ovunque, quasi un cliché. Il duo berlinese Amnesia scanner si definisce come uno studio di game design: utilizzano elementi binaurali per dislocare ovunque il punto di vista sicché simuli un suono che circondi a 360 gradi che veicoli l’idea che, sebbene siamo noi a creare un mondo, non ne siamo più il centro. La grammatica è dei videogame; la costante un’espansione infinita verticale e orizzontale nello spazio e nel tempo; i concetti pura filosofia (“thinking big has become an endemic in marginal music”).  È sintesi, specchio o via d’uscita dal reale. Il messaggio implicito è che nell’epoca dei droni e dei tweetstorm – afferma Reynolds – la musica non coccola nessuno in una trance ipnotica, ma suona come il segnale di un’allerta.

Va da sé che se la musica detta la linea, qualcosa si dovrà muovere. Nonostante la percezione diffusa non sia di una piena maturità del medium (ma è una battaglia che i gamer vinceranno, si ripete, come lo ha fatto il romanzo il secolo scorso), secondo Ian Bogost se il cinema è stato il medium del XX secolo, i videogiochi lo saranno per il XXI. L’era dei medium lineari lascia il posto a quella dei media ad accesso libero; l’era dei media visuali a quella dei media da operare; quella dei media dichiarativi a quella dei media procedurali (per Bogost, i videogiochi hanno una retorica procedurale perché modella: i giocatori, interagendo con sistemi dinamici, colmano la parte mancante di un’argomentazione con la loro attività, con azioni limitate solo dalle regole del gioco).

Ecco, il cinema, dopo l’era dei vari sequel e prequel, si è messo a creare interi universi (il Marvel cinematic universe). La cosa è parte del codice genetico delle serie tv. Il design, l’arte, neanche a parlarne. Aspirano – si cita da Speculative Everything – a creare realtà parallele, a fungere da catalizzatore dei sogni sociali (a catalyst for social dreaming: “dobbiamo sognare nuovi sogni per il ventunesimo secolo, mentre quelli del ventesimo rapidamente svaniscono”).

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Anche i libri tengono egregiamente botta. A ogni livello la struttura del videogame è moneta estetica circolante: innevano gli universi delle saghe young adult, la struttura romanzo mondo, fino alla poesia più sperimentale che concettualmente funziona come una sandbox (pensiamo a Gherardo Bortolotti). Perfino le dichiarazioni esplicite con cui gli autori danno senso alla loro attività ne citano gli aspetti comuni. In un saggio recente Zadie Smith la metteva così: da ogni parte il senso comune di base performa una sorta di non-interesse, una specie di orgoglio nel non essere interessati agli altri, al contrario, la quintessenza delle storie è l’invito a entrare in uno spazio parallelo (corsivi nostri), un’arena ipotetica in cui hai accesso a quello che non sei tu; inventare le vite altrui dentro di sé è l’empatia ed è iscritta nel Dna della fiction. Invece, sul Tascabile Vanni Santoni ha parlato di terraforming: il processo ipotetico di rendere un pianeta abitale all’uomo, appunto formare la terra, fuor di metafora, della finzione sul nocciolo duro del reale.

Quando nella vita quotidiana si complica il rapporto tra realtà e finzione (l’evidenza è della sociologia: finzioni considerate reali, sono reali nelle loro conseguenze: la Brexit, i muri), tra virtuale e reale (non ha più senso dire che si va su Internet come si poteva fare dieci anni fa), la cultura diventa una risposta collettiva per progettare mondi che provino a generare conseguenze di segno opposto.

Forse non tutto aspira al videogame, ma l’intero universo non è che il videogame di una civiltà superiore, come crede Elon Musk, il tizio che ci vuole mandare su Marte. Infatti, la questione potrebbe sgonfiarsi in un classico uno a uno uovo vs gallina. Immergersi in mondi di finzione, simulare realtà, se sono il nocciolo duro dei videogame, sono attività vecchie quanto l’uomo. Altro che videogame – e certo è così. Ma resta il fatto che oggi il videogioco si impone più che come metafora, come un intero tessuto di metafore che consente di parlare del mondo.

Kojima, forse il più famoso auteur di videogiochi da tripla AAA, non contento di aver introdotto la post-verità (in Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty) quando di colpo ci rendevamo conto che la realtà esisteva davvero, nella sua ultima opera (Death Streanding) rompe la quarta parete, I brought you a methapor (in questo caso sul concetto di connessione).

videogame

Negli ultimi anni qualcosa nel settore dei videogiochi è esploso. È il singolo mercato dell’intrattenimento che cresce maggiormente. Sono contemporaneamente gli anni dei fenomeni di massa Fortnite Minecraft e dell’età dell’oro dei videogame indie. Del gamer come soggetto sociale (si pensi al Gamergate) e quelli in cui da un punto di vista generazionale cominciano a essere la maggior parte gli adulti che hanno giocato ai videogame.

Gli anni della gamification (che se da un lato ha da dire qualcosa sul mondo – si veda Capitalismo e Candy Crush, NERO – dall’altro è criticata, per esempio, da Ian Bogost che propone il termine exploitation ware). Ma, soprattutto, sono gli anni in cui quella che il critico Patrick Crogan ha definito gameplay mode, la tendenza a mescolare elementi della realtà e la simulazione nella speranza di controllare meglio la realtà, è diventato un comportamento di massa nella vita quotidiana.

Alessandro Baricco con la metafora del Game ci ha descritto un’intera civiltà, quella della rivoluzione digitale. Lo spazio del videogame, il gamer space, è quello in cui tutte le attività possono essere analizzate e ottimizzate (per McKenzie Wark, che lo qualifica the modern social condition).

La metafora dei videogiochi sembra quasi un linguaggio. Anche nei singoli casi. Fortnite? Cento persone lanciate su un’isola si scontrano in una guerra di tutti contro tutti mentre una tempesta rende il territorio e le sue risorse sempre più stretto, letteralmente – tra le righe di Trevor Strunk su The Outline – capitalismo + disastro climatico. Minecraft? Il polo opposto circa. Fa parte della vasta gamma di videogame intrinsecamente architetturali – sostiene Luke Caspar Person su e-flux – che hanno più in comune di quanto sembri con l’utopia dell’architettura radicale di Archizoom e Superstudio.

Secondo Rob Gallagher (Videogames, Identity, Digital Subjectivity, Routledge) il fatto è che i videogiochi sono simultaneamente sistemi ludici, architetture digitali e storie di finzione. E se è vero che le tecnologie digitali stanno creando delle nuove concezioni di soggettività e di identità, cioè stanno cambiando il modo in cui ci vediamo come individui e come soggetti umani, un medium che incorpora gli elementi stessi di questo cambio di paradigma è particolarmente equipaggiato per aiutarci a comprenderlo. Come lo capiremo, cosa ce ne faremo, per quale scopo, lo scopriremo con il controller in mano.

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