Il wrestling non è uno sport solo per gli uomini. E lo dimostra GLOW, la serie Netflix ispirata all’omonimo programma di wrestling femminile, acronimo di Gorgeous Ladies Of Wrestling, andato realmente in onda negli Stati Uniti a metà degli anni ’80. Tra colonna sonora vintage e dialoghi divertenti, lo show gioca con gli stereotipi, ribaltandoli… – L’approfondimento

Basta leggere la parola wrestling per pensare a omaccioni sudati e muscolosi strizzati in tutine fascianti, che fanno smorfie davanti alla telecamera e poi si affrontano sul ring in incontri di lotta acrobatica. L’odierno immaginario è questo, ma negli anni ‘80 in molti avrebbero pensato anche a donne forti e carismatiche, pronte a combattersi l’un l’altra e a far divertire il pubblico con sketch comici e personaggi esagerati e sopra le righe.

Fu il produttore David McLane ad avere l’idea di un programma televisivo di wrestling al femminile, e nel 1986 nacque così Gorgeous Women on Wrestling, o semplicemente GLOW. È questo lo spunto dell’omonima nuova serie Netflix. Ispirato a fatti reali, lo show in realtà offre una versione romanzata della genesi del vero programma televisivo, con personaggi e storyline fittizi ma con una certa fedeltà nel rappresentare lo stile esagerato del vero GLOW, tra glitter e spettacolari mosse di combattimento.

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Dal vero GLOW a quello della finzione

GLOW, scritto e ideato da Liz Flahive e Carly Mensch, ha come produttrice esecutiva Jenji Kohan, la creatrice di un’altra serie Netflix, la pluripremiata Orange is the New Black. E ci sono evidenti punti in comune tra GLOW e la serie di Kohan: si passa dal carcere femminile di Litchfield alla Los Angeles degli anni ‘80, è vero, ma l’ambiente televisivo può essere duro quasi quanto la vita in prigione, soprattutto se sei un’aspirante attrice come Ruth (Alison Brie), senza una vera prospettiva di carriera perché costretta a fare audizioni per il ruolo di segretaria con una sola battuta.

Proprio come Orange is the New Black, anche GLOW offre un cast variegato, un gruppo eterogeneo di attrici diverse per età, etnia e forma fisica. E tutte fanno wrestling, uno sport di intrattenimento in cui ogni atleta interpreta un personaggio. Il GLOW originale proponeva al pubblico degli anni ‘80 non personaggi ma veri e propri stereotipi, e così fa la serie Netflix.

Lo fa però in maniera brillante, giocando in maniera quasi metatelevisiva: perché mentre le ragazze provano costumi immaginando i loro possibili personaggi da ring, il produttore Sam Sylvia (Marc Maron) le anticipa affibbiando a ognuna di loro delle identità fittizie stereotipate basate sul loro aspetto esteriore. E quindi ecco che le due donne vicine ai cinquant’anni diventano delle canute vecchiette, quasi una critica al modo in cui Hollywood tratta la maggioranza delle sue attrici over 40. La ragazza orientale diventa “Biscotto della Fortuna” anche se non è cinese, l’indiana diventa “Beirut” la terrorista e l’inglese e svampitella Rhonda diventa Britannica, intelligente per via del suo accento british. Perché? “Perché è questo che io e il mondo intero vediamo”, spiega Sam.

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Sono stereotipi con cui la serie gioca sapientemente, ribaltandoli. Accanto ai personaggi stereotipati che le novelle atlete interpretano sul ring, infatti, ci sono donne vere e autentiche. E così, ad esempio, Debbie sul ring è Liberty Bell, paladina americana bionda e formosa, beniamina del pubblico; nella vita è una neo-mamma che usa una confezione di piselli surgelati per dare sollievo al seno morsicato dal figlio che sta mettendo i denti.

Non mancano gli elementi femministi, ben inseriti nel contesto leggero di quella che di fatto resta una serie comedy: se da un lato è vero che il wrestling è uno sport che tende a dare un’immagine ipersessualizzata della donna, tra costumi attillati, ancheggiamenti provocanti e mosse di lotta spesso cariche di erotismo, dall’altro le lottatrici di GLOW riescono a fare proprio uno sport tipicamente maschile, in alcuni casi usandolo come strumento di emancipazione.

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GLOW: innovativa? No, ma efficace

A conti fatti, GLOW non è certo innovativa nel suo basarsi sull’amicizia femminile. È una produzione Netflix anche Grace & Frankie, comedy in cui due settantenni – interpretate dalla due volte premio Oscar Jane Fonda e Lily Tomlin – si ritrovano a vivere insieme dopo che i rispettivi mariti, colleghi avvocati, rivelano di essere omosessuali e di essere amanti da quarant’anni. Anche qui gli autori giocano con gli stereotipi, ribaltando l’immaginario comune della terza età con due protagoniste che parlano di sesso e masturbazione.

E grande successo televisivo di quest’anno è Big Little Lies, miniserie tratta dall’omonimo romanzo dell’australiana Liane Moriarty e incentrata sulle vicende di tre donne, madri e amiche (interpretate da Nicole Kidman, Reese Witherspoon e Shailene Woodley). Come il romanzo, la serie affronta il tema della violenza domestica in maniera delicata e sapiente ma allo stesso tempo autentica, tratteggiando con cura il legame d’amicizia tra le protagoniste.

GLOW quindi combina elementi già collaudati nel panorama televisivo più recente, ma riesce a farlo inserendo tematiche di una certa rilevanza in un contesto scanzonato. Il ritmo inizialmente lento si fa via via più serrato, con alcuni personaggi che vengono approfonditi più di altri. I dialoghi sono incalzanti, spesso divertenti, e non mancano riferimenti nostalgici agli anni ‘80, a partire dalla colonna sonora. Anni ‘80 che non vengono idealizzati – come capita spesso, Stranger Things insegna – perché ci basta vedere un test di gravidanza di quegli anni, quasi un esperimento da Piccolo Chimico, a farci apprezzare di più il presente.

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