Dopo l’acclamato “Mare aperto”, Caleb Azumah Nelson torna con il secondo romanzo, “Piccoli mondi”, la storia d’amore tra due adolescenti, all’interno di una East London del 2010 in preda alla gentrificazione più selvaggia – Su ilLibraio.it un estratto
Dopo aver pubblicato Mare aperto, Atlantide propone (nella traduzione di traduzione di Anna Mioni) il secondo romanzo di Caleb Azumah Nelson (fotografo e scrittore classe 1993, che vive nel sud-est di Londra), Piccoli mondi, subito accolto positivamente in Inghilterra, dov’è uscito a maggio.
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Piccoli mondi è un romanzo sui legami che ci segnano e i luoghi che ci formano, sul coraggio di seguire le nostre passioni per diventare chi siamo realmente. E narra la storia d’amore di due adolescenti, all’interno di una East London del 2010 in preda alla gentrificazione più selvaggia. Il libro di Caleb Azumah Nelson diventa una meditazione sull’esperienza migratoria di un’intera comunità.
Ma Piccoli mondi affronta anche l’abuso della violenza perpetrato dalla polizia nei confronti della comunità nera, mettendo in luce la rabbia e l’impotenza che ne derivano, i traumi generazionali che persistono nel tempo e si trasmettono da padre in figlio, oltre a sottolineare come il razzismo sia ancora una realtà insita nell’attuale Londra.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Siccome è estate, è più facile levarsi di torno il malumore e rimanere concentrato sul presente. Il tempo va alla deriva, slegato dal mondo, senza una meta prefissata. Io e la zia chiudiamo bottega presto e ci sediamo sul ciglio della strada, con una bibita in mano, a osservare il nostro piccolo mondo. Molti dei negozi vicini hanno avuto la stessa idea: uomini e donne stanno sul marciapiede, tenendosi stretti i bicchieri di plastica, o guardando i loro avversari in una partita a domino, o cercando di fare progetti per andare altrove, magari sognando di tornare a casa. Chiedo a zia Yaa se lo farebbe mai, se rimetterebbe mai piede in Ghana. Lei beve un sorso di Supermalt e, con un sorrisino, scuote la testa. Indica il suo negozio, la via, la gente, e dice: «È questa la mia casa ora. E poi, cosa fareste senza di me?». Entrambi scoppiamo a ridere e continuiamo a guardare il nostro piccolo mondo. Siccome è estate, un ragazzo su una bmx minuscola si fa largo tra i pedoni, con una ragazza in equilibrio sui pedali della bici, e le mani sulle sue spalle. Di fronte a noi ci sono due anziani seduti sul bordo del marciapiede, con le lattine di birra tra le gambe, e reggono delle cartine da sigaretta come se fossero mani stese, spargendoci dentro tabacco e anche qualcos’altro. Il modo in cui la luce ci indugia sulla pelle a quest’ora ci fa sembrare tutti bellissimi. Vorrei fissare questo momento nella memoria, ma Del non è qui con la sua macchinetta usa e getta, e la fotocamera del mio telefono non gli renderebbe giustizia. Invece, mi concentro sul ritmo. Mi concentro sul chiacchiericcio di un gruppo che discute della partita di calcio, il cui ricordo è ancora fresco e bruciante. Mi concentro su chi annuisce apprezzando “Riot” di Hugh Masekela, con quegli ottoni esultanti che si riversano fino in strada. Mi concentro sul fatto che lo zio T è comparso per strada come per magia, con i dread raccolti, la camicia aperta qualche bottone in più del solito, per chiedere quando io e Ray gli restituiremo le casse dello stereo. Io eludo la domanda e lui rivolge la sua attenzione a zia Yaa; fanno il loro classico giochetto:
«Buonasera, bellezza», dice lui.
«Signor Tony. Come sta?».
«Non mi lamento. Come vanno gli affari?».
«Al solito. È la mia passione».
«Lei mette così tanto amore in questo locale e nella gente. Fa proprio le cose a regola d’arte. Quand’è che mi permetterà di amarla a regola d’arte?».
«Quando lei sarà pronto a fare la persona seria».
A questo punto, lui ride e gira i tacchi per allontanarsi con andatura rilassata. Guardo la zia mentre lo osserva e vedo che quella loro danza le fa piacere. Sto per fare l’impertinente e chiederle della sua vita amorosa, una domanda dalla quale svicola spesso, ma siccome è estate e siamo a Londra, ai primi di luglio, si sentono dei tuoni. Pochi istanti dopo, una pioggerella. Yaa solleva la mano aperta, in segno di silenzioso ossequio alla pioggia calda. Ora scende più forte e cerchiamo riparo sotto la corta tettoia del negozio. Appena smette, saluto la zia con un abbraccio e ci separiamo.
Siccome è estate, è più facile levarsi di torno il malumore e rimanere concentrati sul presente. Mentre vado verso casa, lungo una strada alberata, il mio passo si fa energico. Vedo Marlon, l’amico di Ray, e alzo la mano per salutarlo. È immerso nel suo piccolo mondo, sta pensando ad altro – non è più lo stesso dall’estate scorsa, quando suo padre è morto, senza clamore, troppo giovane – ma quando mi vede, attraversa la strada e mi avvolge in un abbraccio. Il cielo si è rischiarato subito e la luce filtra tra gli alberi in un modo che ci rende bellissimi. È una chiacchierata veloce, lui sta andando al lavoro, fa il turno di notte in un magazzino, ma domani sera ha in programma un aperitivo. Io il giorno dopo lavoro da Yaa ma, siccome è estate, è più facile dire di sì. Appena ci congediamo mando un messaggio a Del, chiedendole se le va di venire, se è libera stasera per vederci. E siccome è estate, rimango presente. Io sono qui. Non mi preoccupo di quello che è stato o che sarà, perché in questo momento tutto sembra possibile.
(continua in libreria…)
Fotografia header: Caleb Azumah Nelson nella foto di Stuart Ruel