“Mare Aperto” è il primo romanzo, acclamatissimo, di Caleb Azumah Nelson, che vive a Londra e fa il fotografo: difficile definire un’opera in prosa questo libro dove le frasi si rincorrono ripetendosi come ritornelli, si interrompono creando il ritmo di un rap potente sulla fragilità e sui sentimenti. Ed è proprio questo modo di usare la parola che invita ad abbandonarsi, a nuotare dove si ha più paura, perché l’amore è la più grande e terribile opportunità offerta agli amanti per essere visti: significa essere intero, e incompleto, sincero, fiducioso, in una società dura che punisce un nero che cammina a testa alta, e non chiede il permesso di respirare – L’approfondimento

“È più facile nasconderti nella tua oscurità che non emergere, nudo e vulnerabile, abbagliato dalla tua stessa luce”.

La voce di Caleb Azumah Nelson si muove con la sensualità e l’intensità di un sound nelle pagine di Mare aperto (Atlantide, traduzione di Anna Mioni): la sua è una prosa che vibra, costruisce immagini che restituiscono un ritmo, arriva e si ritrae come una marea, un’onda piena. È questa forza espressiva e musicale che colpisce da subito, leggendo una storia di amore e di disperazione, di vergogna e di desiderio, raccontata in seconda persona, febbrile e modulata come un rap.

Tu dici…. lei dice….

Lui fa il fotografo nel sud est di Londra, la sua espressione, la sua “voce” sono le immagini: lo sguardo non ha bisogno di parole, ha una sincerità immediata. Lei fa la ballerina, capace di ricavarsi il suo spazio per ballarci dentro, dove il movimento è libertà, scelta di essere se stessi. Sono giovani artisti, di colore, pieni di musica e di creatività, orgogliosi e insieme timidi, in una società di violento e ignorante razzismo.

mare aperto

È inverno quando si conoscono, la stagione sbagliata per una cotta a Londra: ci vuole l’estate perché l’attrattiva possa esplodere con la sua calda liturgia, dove tutto è più semplice, si beve si balla, ci si innamora. Nel freddo, nella neve, il seme germoglia inaspettato, li coglie di sorpresa, un cauto stupore di due amici che si trovano complici in un’intimità improvvisata come due solisti in totale armonia. 

Il loro amore, giovane, inesperto, imperfetto, è una linea tesa, gambe intrecciate al buio, capelli a fare il solletico: è la scoperta di tenersi stretti in mare aperto.

È una conoscenza che porta con sé un senso di sicurezza, penetra nelle rispettive vulnerabilità, le lascia respirare. L’amore è sentire che l’altra persona diventa la tua casa, impossibile nascondersi, è uno sguardo diretto, è essere trasparenti, poter essere visti e non solo guardati. Non solo considerati Nerezza, una percentuale sociale, standardizzata o esibita.

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“L’amore ti rendeva Nero, perché in presenza di lei eri prevalentemente di colore. Non era fonte di preoccupazione: bisognava esultare! Potevate essere voi stessi”.

Essere a casa è proprio questo, un buio che non sa di minaccia, dove la sensualità delle parole e dei gesti scorre in sincrono, trova la sua espressione in un flusso che Caleb Azumah Nelson fa continuamente rimbalzare dal generale all’intimo, dall’indignazione sociale, al dolore più profondo, quello delle proprie cicatrici nascoste. 

Perché essere Nero è desiderare di non essere guardato, vuol dire chiedere scusa. Le aggressioni subite non sono solo i fermi della polizia, perché si rientra in un “profilo”, cioè giovani Neri, non sono solo le occhiate e le battute a scuola, non sono solo il dolore per i fratelli ammazzati in strada. C’è un sentimento più intimo, che accarezza la parola vergogna, che si fa sedurre dal bisogno di essere invisibili, e che per questo fa male. 

È una ferita uguale, che unisce, ma qualche volta ha il sopravvento e separa, ognuno con le proprie insicurezze, ed è allora che lo scorrere musicale e febbrile del flow si interrompe bruscamente: un pianto nel buio è quando la musica si ferma, sei solo, non ti senti a ritmo, e senza suoni in sottofondo hai paura. 

Allora ricreare il ritratto di sé avviene per accumulo convulso di immagini, variopinte e veloci: il carnevale di Notting Hill, i club musicali, il treno la sera, cuffiette nella testa per abbandonarsi alla musica, ma anche i pestaggi della polizia, i libri di Zadie Smith per riconoscersi fratelli, per trovare un senso. E nel silenzio ci si nutre delle chiacchiere con la nonna, che non c’è più, le si confidano i tormenti del primo amore, che è l’unica cosa che conta, che permette di respirare e non annegare. Ma anche per tenere insieme questo legame, le parole sono imperfette e mai sufficienti: è più facile nascondersi nelle proprie oscurità.

“Ci ritroviamo invisibili. Ci ritroviamo inascoltati. Ci ritroviamo vittime di stereotipi. Noi che siamo chiassosi e arrabbiati, noi che siamo audaci e appariscenti. Noi che siamo Neri. Ci ritroviamo a non dire le cose come stanno. Ci ritroviamo spaventati”.

Mare Aperto è il primo romanzo, acclamatissimo, di Caleb Azumah Nelson, che vive a Londra e fa il fotografo: difficile definire un’opera in prosa questo libro dove le frasi si rincorrono ripetendosi come ritornelli, si interrompono creando il ritmo di un rap potente sulla fragilità e sull’amore. Ed è proprio questo personale modo di usare la parola che invita ad abbandonarsi, a nuotare dove non si tocca, dove si ha più paura, perché l’amore è la più grande e terribile opportunità offerta agli amanti per essere visti: significa essere intero, e incompleto, sincero, fiducioso, in una società dura che punisce un nero che cammina a testa alta, e non chiede il permesso di respirare.

“L’erba è fresca contro il calore del tuo desiderio, e la vita è immobile contro il battito furioso del tuo cuore”.

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