In “Cronache dall’Italia nascosta”, Ivan Carozzi conduce lettrici e lettori avvezzi al girovagare (o meno) in un viaggio tra i luoghi misteriosi – e magici – d’Italia, lontano dalle rotte turistiche che paralizzano le nostre città, alla scoperta di storie dimenticare, o poco conosciute, e personaggi illustri – Due brevi estratti (dedicati ad Ascoli Piceno (“La città inesistente”) e alla casa di Dino Buzzati

L’Italia, con le sue montagne e i mari, con le sue città e le sue bellezze naturali, è spesso sinonimo di turismo e, negli ultimi tempi, purtroppo, anche di iperturismo (o overtourism). Masse di persone che paralizzano paesi e il Paese, e che rendono difficile individuare luoghi fuori dalle rotte conosciute.

Difficile, ma non impossibile. Soprattutto per Ivan Carozzi, scrittore e “speleologo dell’anima profonda dell’Italia”. Autore per la radio e per la televisione, che nel 2023 ha lavorato con Enrico Deaglio – che firma la prefazione del nuovo libro – ai primi due volumi di C’era una volta in Italia (Feltrinelli). Carozzi ora racconta il suo viaggio tra le venti regioni e tra i segreti della penisola.

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Cronache dall’Italia nascosta – Almanacco contemporaneo di storie, vite e favole del nostro Paese (Blackie) illustra dunque quei “miracoli” italiani finora rimasti troppo nascosti, luoghi ben lontani dai flash delle macchine fotografiche e dai selfie per i social.

Sono comunità utopistiche, icone pop alla ricerca delle proprie radici, sette segrete e storie nelle quali magia e realtà si confondono…

Copertina di Cronache dall'Italia nascosta

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

La città inesistente

ASCOLI PICENO

Ascoli Piceno, naturalmente, esiste. È un capoluogo di provincia abitato da oltre 45mila persone, con un centro storico edificato nell’arco di 2.500 anni e caratterizzato dall’impiego del travertino. La città è servita da una stazione ferroviaria dove si può essere certi di scendere ad Ascoli Piceno e con una passeggiata di un quarto d’ora arrivare fino alla cattedrale di Sant’Emidio. Nella pinacoteca civica sono esposte opere di Tiziano e Guido Reni e in inverno il sopraggiungere di correnti d’aria dai Balcani può portare a forti nevicate. In Piazza del Popolo si può sorseggiare un cappuccino circondati dalle decorazioni liberty e i divani in velluto verde dello storico Caffè Meletti, dove si sono accomodati Jean-Paul Sartre e Sandro Pertini. Il Corriere Adriatico e Il Resto del Carlino escono ogni giorno con le pagine della cronaca locale di Ascoli. Inoltre, negli anni ottanta di Maradona e Michel Platini, la squadra di calcio dell’Ascoli giocò in serie A, vincendo in casa contro club importanti. Lo stadio era il Del Duca. Capienza di circa 40mila posti. Le cronache delle partite erano seguite da un giornalista, un certo Tonino Carino da Ascoli. Insomma, non ci sono dubbi intorno all’oggettiva realtà della città di Ascoli. Eppure, è successo che uno scrittore, Giorgio Manganelli, ha dubitato della sua esistenza.

Nei primi anni ottanta una rivista di Ascoli Piceno commissionò a Giorgio Manganelli, allora sessantenne, un articolo di qualche cartella. In apertura del testo, Manganelli dichiarava di aver ricevuto una lettera da parte di una rivista di «una zona periferica», per poi aggiungere una domanda, straniante ma tipicamente manganelliana: «Il punto è: esiste Ascoli Piceno?». Nella pagina successiva un Manganelli particolarmente molesto osava insistere e affermare: «Non ho mai visto una automobile con targa di Ascoli». L’intenzione di Manganelli non era fare dell’ironia sull’irrilevanza di Ascoli Piceno, provincia che come tante altre raramente finiva nei titoli dei tg o sulle prime pagine dei giornali fino in qualche modo a sparire dall’orizzonte, oscurata dalle varie Roma, Milano, Firenze, Napoli, ma pure dalle minori Parma, Siena o Catanzaro. In realtà il motivo era un altro, più pratico e personale. Manganelli – lo ammette lui stesso – era un uomo pigro, non aveva voglia di scrivere su commissione o di argomenti che non gli interessavano, però per qualche ragione, anche se a fatica e controvoglia, evidentemente aveva accettato di sedersi alla macchina da scrivere e battere quel testo su Ascoli Piceno, ma senza aver nessuna voglia di lavorare, documentarsi e neppure di recarsi sul posto. Perciò si era affidato ai ricordi sbiaditi di un suo vecchio passaggio in città, ma al tempo stesso dubitando di essere stato per davvero ad Ascoli Piceno.

Grazie a questa diversione tattica, Manganelli, in realtà, di Ascoli regala al lettore un quadro frammentario ma fedele, perspicace e illuminante. Per esempio gli pare di ricordare di aver bevuto un bicchiere di una cosa chiamata «anisetta» (liquore a base di anice verde caratteristico dell’ascolano, prodotto dalla famiglia Meletti, gli stessi del Caffè Meletti) e che le strade, anziché «strade», si chiamano «rua». Poi fantastica di essere il comandante di un esercito e di dare l’ordine di uccidere «uomini di elegante dottrina, raccoglitori di documenti locali, notai bigotti, rimatori di sonetti e storici della Marca».

Così facendo, Manganelli offre un ritratto della società ascolana e della sua borghesia professionale. Inoltre, scatenato, menziona dentisti di origini longobarde e sagrestani transfughi di una setta cristiano-gnostica (i bogomili), proveniente dall’altra sponda dell’Adriatico, dalla Bosnia. Insomma, in poche righe accende qua e là delle luci sulla storia più remota della regione e sul corredo genetico dei suoi abitanti, fatto del lascito di popoli disparati. Prima di concludere, si lascia andare a un’ultima fantasia: «Forse Ascoli non ha mai scoperto la ruota, e i trasferimenti si svolgono grazie a un sistema di meravigliose mongolfiere, mosse da venti devoti e miti». Ancora una mezza paginetta e il testo di Manganelli, dal titolo Esiste Ascoli Piceno?, si chiude, rapido e senza fare torto alla propria accidia, come del resto, mettendo le mani avanti, aveva promesso: «Io non scrivo facilmente, non scrivo se me lo chiedono, la mia fantasia è pigra e viziosa, sono di cattivo carattere e sebbene troppo vigliacco per essere litigioso, sono certamente rancoroso».

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foto di Ivan Carozzi

La casa di Buzzati

SAN PELLEGRINO, BELLUNO

Una foto in bianco e nero ritrae il veneto Dino Buzzati nella sua casa di Milano, seduto in poltrona con le gambe accavallate. Buzzati, serissimo, veste giacca e pantaloni scuri, camicia bianca e cravatta chiara. I capelli, in perfetto ordine, sono tagliati corti. Del lucido è stato appena spalmato sulle scarpe, nere e con le stringhe. Ogni dettaglio concorre a rappresentare Buzzati nel suo appeal più urbano e borghese, tutto casa e via Solferino, dove lavora in redazione al Corriere. Alle spalle, però, incombe l’altro protagonista dello scatto. È un quadro, posto su un cassettone, che ci prende e ci porta nelle memorie e nelle fantasie più intime e arcane di Buzzati. È il suo dipinto più celebre. Si chiama La piazza del Duomo di Milano. Il luogo ritratto, in realtà, è una trasfigurazione della piazza e della cattedrale, trasformata in un bianco massiccio gotico-dolomitico, di fronte al quale non ci sono passanti, lampioni, colombi, automobili che si fanno largo a colpi di clacson, ma un sereno prato verde, tutto scaldato dal sole, con tanto di alberelli, covoni di fieno e contadini intenti a falciare l’erba in bucolica solitudine. Questa è la piazza del Duomo vista dal pittore. «Vedete, io vivo a Milano ormai da molto tempo» sembra dirci Buzzati nella foto, «ma in realtà non me ne sono mai andato da lì, dalla mia terra, e ogni giorno della mia vita a Milano mi perseguita il ricordo del luogo in cui sono nato, delle montagne e degli alpeggi, tanto che il paesaggio della città, perfino il Duomo di Milano, dentro di me si fonde con il ricordo delle Dolomiti e diventa lui stesso un pezzo, una prosecuzione della catena dolomitica, vista in un giorno di sole.»

Per comprendere le ragioni di tanta nostalgia, bisogna tornare nel luogo dove Buzzati è nato, nel 1906, in località San Pellegrino, a due chilometri dal centro di Belluno, lungo la strada provinciale che costeggia il fiume Piave. Insieme alla sorella e ai due fratelli, Buzzati crebbe in un complesso agricolo-residenziale composto da un corpo abitativo e una chiesetta rossa, entrambi risalenti al Cinquecento, un granaio dal tetto asburgico costruito nel Seicento e un’ala est, aggiunta nell’Ottocento, in stile neo-gotico. Gli esterni della villa sono decorati da affreschi realizzati nell’Ottocento di cui resta ancora traccia. Oggi Villa Buzzati è sede di un B&B e dell’associazione culturale Villa Buzzati San Pellegrino – Il Granaio. Il giardino, le siepi, l’albero di liriodendro bicentenario sul retro («era già immenso e antico, quando io comparvi piccolo bambino» scrisse Buzzati) formano un vero proprio habitat, un microcosmo che ha ispirato numerosi racconti. Villa Buzzati affaccia sulla Schiara, la montagna più amata dallo scrittore, visibile nella sua interezza dalle finestre. È così che nasce il filo diretto e infrangibile che salda la mente dello scrittore alle Dolomiti. Ogni giorno, svegliandosi, entrava in contatto con l’apparizione di quella grande e immobile parete rocciosa. Era come sedersi al cinema. «Dalle 11 del mattino a pomeriggio inoltrato una piccola macchia lucente risplende infatti all’orizzonte. È la faccia sud dello Schiara.» Scomparso nel 1972, in un giorno di neve a Milano, Buzzati è stato cremato. Le ceneri sono state conservate per un po’ nella chiesetta di San Pellegrino, poi sono tornate a Milano e alla fine disperse in montagna.

(continua in libreria…)

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