Venticinque anni dopo dalla sua uscita in Giappone, arriva in Italia “I dilemmi delle donne che lavorano” di Fumio Yamamoto (1962 – 2021), una raccolta di racconti che entra nella vita di donne giapponesi che tentano di farsi posto in una società che non sembra volerle minimamente prendere in considerazione. Un pilastro della letteratura femminista e anticapitalista del Paese del Sol Levante, che è valso all’autrice il Premio Naoki per la Letteratura, e che offre, ancora oggi, una riflessione sugli spazi che il femminile riesce a ritagliarsi in un mondo che, spesso, tende invece a marginalizzare…

Questo autunno editoriale ci regala alcune perle. Esce ora per Neri Pozza, tradotto da Gala Maria Follaco, un libro speciale, anche per la sua storia editoriale.

I dilemmi delle donne che lavorano di Fumio Yamamoto (1962 – 2021) fu pubblicato in Giappone in prima edizione nel 2000 e vinse il Premio Naoki per la Letteratura. Ora, venticinque anni dopo, arriva in traduzione anche nel mercato anglofono e italiano. Quindi la domanda che necessariamente dobbiamo porci è: perché ora?

I dilemmi delle foto che lavorano di Fumio Yamamoto

Yamamoto, che con Loveaholic (inedito in Italia) nel 1999 ha vinto il Premio Yoshikawa Eiji per Nuovi Autori, fu spinta alla scrittura da una serie di concause che avevano a che fare con il rapporto tra la recessione economica giapponese all’inizio degli anni ’90 e il ruolo della donna, ed è questo il motivo principale per cui leggerla, oggi, nelle nostre società occidentali.

Gli spunti di attualità e riflessione che regala questa raccolta di racconti sono numerosi e tutti importanti. Donne che hanno lottato per essere riconosciute dalla collettività e poi, a prescindere dal loro successo o fallimento, sono state in qualche modo relegate ai margini, o hanno scelto la marginalizzazione.

Haruka è scampata a un tumore che l’ha colta in giovane età. Sa che dovrebbe smettere di parlarne in consessi pubblici, perché genera imbarazzo e malumore, soprattutto nel suo compagno. Haruka è stanca, ci prova a stare al passo, a integrarsi, a cercare un lavoro che le dia una scusa per uscire di casa, ma non sa se ne è capace.

Izumi, trentaquattrenne divorziata, è disoccupata da quando il marito l’ha lasciata per una donna più giovane. Gestiva con lui un’impresa con alcuni dipendenti, che rivendeva oggetti di artigianato giapponese. Le pesa non poter più offrire un pranzo agli amici, ma non sa reinventarsi. Le pesa forse anche non essere più amata da qualcuno, ma non sa dire, alla solitudine ci si abitua. Fino a quando non incontra un suo ex dipendente, il ritratto dell’uomo senza aspettative, per poi scoprire, però, che la notte che lei aveva scambiato per una promessa era solo un viatico per il suo riscatto sociale.

Izumi era dinamica. Era potente. Era severa. Ma la caduta dall’olimpo delle donne in carriera è andata di pari passo con la caduta del suo fascino.

Katō invece è mamma full time e lavoratrice part-time, ma per non togliere tempo alla famiglia ha deciso di impiegarsi nel turno di chiusura di un supermercato. Così lavora dal tardo pomeriggio fino a notte fonda, e nel frattempo deve blandire il marito, che è stato “ristrutturato”, ovvero demansionato dall’azienda in cui lavora. Poi c’è l’anziana madre a cui badare, un figlio ventenne e una figlia adolescente che non si sa dove passi le notti e che ha come unico scopo quello di non diventare come sua madre. Risultato, tre ore di sonno e un’esistenza che va avanti perché non è questo il tempo delle lotte di autoaffermazione.

Questi e altri indimenticabili personaggi compongono una galleria affascinante e di facile immedesimazione, senza mai cadere nel vittimismo.

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Tornando ora al perché leggere Yamamoto nell’Italia di questi anni, se non vi fosse ancora evidente la portata della riflessione nell’ambito della critica sociale, si può tornare alle parole di Carla Lonzi, che definiva l’irruzione nella Storia, nell’economia e nella politica delle donne come l’entrata in scena di “soggetti imprevisti”. Toccherebbe naturalmente capire: imprevisti da chi.

Dagli uomini, sicuramente, che vediamo a più riprese barcamenarsi con la cessione millimetrica del loro potere e della loro influenza (e più avanzano le donne in autodeterminazione e rivendicazioni, più la lotta si acuisce), ma addirittura forse anche imprevista dalle donne stesse.

Sì perché, come scriveva, come scriveva Sibilla Aleramo in Apologia dello spirito femminile (in Andando e stando, 1924, Feltrinelli):

La donna da un secolo in qua ha vagamente sentito che poteva muoversi ormai con più agio, ma non ha sentito che poteva anche sostare alquanto, e interrogarsi. Così, invece che alla vita e all’arte, la sua autentica anima è entrata nell’azione come un misero inutile duplicato dell’uomo.

In altre parole, forse le donne hanno introiettato una misura della felicità che non parla la loro lingua, si sono illuse che la realizzazione passasse attraverso il lavoro (dominato da regole e logiche maschili), o forse che il loro ingresso nel mercato del lavoro avrebbe favorito una più equa redistribuzione dei compiti fuori dal lavoro. Sbagliando.

E così ora, e da molti decenni a questa parte, si trovano a interrogarsi: chi sono, cosa vogliono davvero, quanto conta l’ambiguo rapporto amoroso con l’altro sesso, si può davvero uscire dalle strutture mentali del maternage, cosa sono i figli, sono destinate a essere madri per sempre?

Senza però potere dare una risposta a queste domande, perché la voce che a loro risponde parla quasi sempre la lingua del padrone.

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Fotografia header: Fumio Yamamoto nella foto di Bungeishunju Ltd

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