“Anatomia di un profeta” di Demetrio Paolin è romanzo ibrido e dalla struttura complessa, in cui la storia del quotidiano si fonde con la storia biblica – Su ilLibraio.it un estratto

Demetrio Paolin, classe ’74, torna in libreria per Voland con Anatomia di un profeta, un romanzo ibrido e dalla struttura complessa, in cui la storia del quotidiano si fonde con la storia biblica.

Siamo in un piccolo paese del Monferrato, primi anni ‘90. C’è una tomba vuota e, rivolto a questa, un uomo recita un verso del profeta Geremia come fosse una preghiera. Da quel preciso istante la vita del profeta che annunciò la distruzione di Gerusalemme e la vicenda drammatica del bimbo/Dio che non vuole più vivere si legano: Patrick il bambino, con le figure dolenti e folli dei suoi genitori; Geremia il profeta e le sue parole piene di ira e tenerezza; l’io narrante, sempre in bilico tra il tentativo di raccontare e l’insensatezza del mondo; e Dio, che vive e muore, che odia e vuole redimere. Queste le voci che si intrecciano e raccontano la più semplice e antica delle storie: una storia d’amore e morte.

L’autore, che collabora con La Lettura, fa parte della redazione di La letteratura e noi e insegna scrittura creativa a Milano presso la Bottega di Narrazione. Si è occupato di letteratura concentrazionaria (Primo Levi in particolare) e letteratura italiana del secondo ’900. Autore di romanzi e saggi, con Conforme alla gloria (Voland, 2016) è stato tra i dodici finalisti al Premio Strega.

demetrio paolin

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

LE VIGNE

Come la pioggia e la neve, così Patrick cade sulla terra, si versa nei pori dell’argilla e nutre le piante, si confonde nella prosa, sprofonda dentro queste parole, si fa verbo e sintassi, permea le righe e le mie dita che battono sulla tastiera; scende, Patrick, nel profondo, ristagna e diventa sali minerali. Quando è morto, per anni nessuno ha voluto lavorare quel lato della collina, maledetta alla vista. Suo padre ci aveva provato a percorrere quella strada che da casa porta al capanno, ma ogni volta si bloccava. Così ha deciso che quella zona, quella parte di terra, sarebbe morta come suo figlio, che non avrebbe ricevuto più nessuna cura e ogni vite si sarebbe rattrappita e poi sarebbe scomparsa. Sarà un posto deserto, ha pensato il padre, senza uomini e senza bestiame.103

Guardate le mani del padre che tiene la bottiglia di plastica dura, osservate come tremano, come le ulcere e le ferite e i calli le hanno rese spesse: queste mani stringono la morte di Patrick. Si sforza di cercare un resto di Patrick sulla superficie, fosse anche solo l’odore.*
Quello che rimane di suo figlio è il gesto. Patrick che prende la boccia, Patrick che apre il tappo, Patrick che inclina il con-tenitore, Patrick che apre la bocca e beve. Questo di un figlio rimane a un padre: un gesto di morte e una vigna indifferente e nera.
L’uomo grida. Desolazione, rovina, impurità. Urla il padre.
Deserto. Rabbia. Tradimento. Dolore.
E
Patrick si decompone nella terra annerita, si decompone sotto il cielo biancastro o azzurro delle stagioni diverse. Si disfa, ma qualcosa rimane attaccato alle ossa ormai annerite: il corpo si sfalda e dalla bara si disperde nella terra che lo accoglie. Il corpo di Patrick ha una seconda vita, un’esistenza minore, indifferente ai dolori di ognuno. Si scompone, si fa sempre più piccola, la vita di Patrick; si mischia con le altre sostanze organi-che e inorganiche della terra. Sta nel cuore nero dell’argilla, nelle zolle. Lentamente le parti inconsistenti eppur vive di Patrick salgono in cielo in forma di atomi, di niente che si con-fonde con l’aria, con l’umidità del cielo, con le correnti fredde e calde; che si addensa con altre particelle.
E
Patrick è lui, ma in un modo che noi non possiamo più capire
– possiamo capire la vita dopo la morte? Possiamo immagina-re qualcosa di concreto di ciò che sarà? La vita eterna è quella delle cellule nostre decomposte e mescolate tra di loro, del corpo liberato dalla morte che si fa materia sottile, si confonde e sparisce.
E
Patrick adesso, in questo momento preciso in cui scrivo, cade sotto forma d’acqua, di gocce di pioggia che scendono e bagnano il terreno, dove lui stesso riposa in pace; inumidisce le cortecce degli alberi, le foglie e le radici, si infila tra le zolle sec-che di terra per dare la possibilità a vermi e insetti di tornare a muoversi, a vivere.
Così la terra della vigna abbandonata si fa viva. L’erba, le bocche di leone, i rovi delle more e l’erba medica tornano a occupare uno spazio che non era loro. Patrick si fa vegetale, riprende possesso del suo spazio di morte. Vivifica il luogo della sua morte. Patrick è la pioggia, i vermi e gli insetti.
E
Patrick è il verdeggiare che una mattina sorprende suo padre mentre cammina e la riva è toccata dal sole dopo un forte acquazzone. Nel suo dolore scontroso e solitario, nella sua irriducibilità alla distruzione, qualcosa s’incrina, come se quel colore squillante fosse la voce del figlio, così rumorosa e gaia che di colpo gli riempie le orecchie. Così l’uomo si ferma sul limi-tare del sentiero e dice
Di nuovo ti costruirò e sarai ricostruita/ […] Di nuovo pianterai vigne/ sulle montagne dalla Samaria;/ coloro che hanno piantato ne godranno dei frutti.104
E
I suoi ultimi giorni di padre furono seduto nel mezzo della vigna a parlare all’erba verde e a sentire la voce di Patrick.

103 Ger 33, 10.

104 Ger 31, 4-5.

(continua in libreria…)

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