Giornalista romana, classe ’85, Domitilla Pirro è l’autrice del romanzo “Chilografia. Diario vorace di Palla”: un libro (con una protagonista sorprendente) fatto di chili, di carne, sangue, e sudore. Un romanzo che porta tutto il peso di una vita passata a nascondersi, dai nomignoli crudeli e dagli sguardi cattivi.. – Su ilLibraio.it un capitolo del libro

Tutti odiano i lunedì. Odiare il lunedì è quasi scontato, obbligatorio, perfino banale, alla luce del fatto che il lunedì viene dopo la domenica, è il primo giorno che dà nuovamente inizio al ciclo quotidiano di lavoro, studio, fatiche, noia e quant’altro. Palma invece, la protagonista del romanzo di Domitilla Pirro, Chilografia. Diario vorace di Palla (Effequ), odia i martedì. Perché i martedì, per Palma, detta Palla, sono “subdoli e bellicosi”. E le portano sempre sfortuna.

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Giornalista e direttrice di Fronte del Borgo  l’ufficio della Scuola Holden che si occupa dei rapporti col territorio e che si batte contro la dispersione scolastica con l’obiettivo di promuovere la lettura tra i più giovani, Domitilla Pirro, romana, classe ’85, costruisce una protagonista che, al primo sguardo, potrebbe apparire familiare a molti lettori e, tuttavia, non smette mai di sorprendere.

Palma è grassa e, per questo motivo, quelle simpaticone delle girl scout l’hanno soprannominata Palla, in uno slancio di empatia nei confronti della loro coetanea. Ma il peso corporeo non è l’unico macigno che Palma, detta Palla, è costretta a portarsi dietro: la famiglia che si ritrova è piuttosto disastrata, con due genitori separati e una sorella perfetta che, in questi casi, non è mai un toccasana per l’autostima. Quieta, silenziosa, quasi mesta, Palma, detta Palla, si rifugia in una realtà dove nessuno può giudicarne la stazza, la famiglia, il carattere, i difetti: la realtà virtuale.

Lo schermo del computer funge a tutti gli effetti da scudo, per Palma, che si rifugia in un mondo dove il suo aspetto fisico non conta, dove si sente libera di esprimersi, e anche di innamorarsi: è qui che incontra Angelo, che ha una passione per le donne grasse, e quando si incontrano, quando la loro storia esce dalla rete e diventa vera, finalmente Palma, detta Palla, ha trovato qualcuno con cui non si deve vergognare, nascondere. Almeno fino a quando la loro storia non prende una svolta per il peggio.

Con un impasto linguistico che condisce l’italiano di frasi in romanaccio, che rendono ancora più vivida la scena, Chilografia. Diario vorace di Palla è un libro fisico, in cui ogni capitolo ha, letteralmente, il suo peso: un peso che non si quantifica soltanto nei chili di Palma, detta Palla, ma soprattutto nel peso, molto più schiacciante sebbene invisibile, di ogni maldicenza e maltrattamento subito, sempre a capo chino. Fino all’inevitabile momento in cui subire non è più possibile, perché ad ogni azione, prima o poi, corrisponde una reazione.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Una domenica di gennaio Stefania pensò bene di iscrivere le figlie al Reparto Vento del Nord. Non era una comune hippie, ma il nome di battaglia del gruppo scout della parrocchia di San Tarcisio. Secondo padre Carlo, l’esperienza le avrebbe aiutate a lasciasse a ’e spalle tutta quaa negatività dell’urtimo periodo.

L’idea era che Palma, per classe scolastica e stazza, si aggregasse ai più grandi saltando a pie’ pari l’ultimo anno di Branco. E mentre su Clara il concetto non aveva attecchito nemmeno remotamente, come la ragazza aveva avuto modo di urlare in mezzo al sagrato perché me devono senti’ tutti, a Palma il gioco era piaciuto. All’inizio. Le pecette ricamate sull’uniforme, le parole in codice, i calzini da maschio, urlare Tigri quins of de giangol! insieme a un gruppetto di borgatare bonsai. Ma quando, durante le uscite fuoriporta, aveva iniziato a sentir bruciare dei muscoli che non sapeva manco quali fossero, aveva iniziato a maledirsi.

Tipo adesso, 29 giugno 1993, ore 15,45. Martedì. Missione di Squadriglia: Pittura Murale Su Parete Di Fondo In Refettorio Carmelitane Scalze. Tema: L’Arca Di Noè (senza liocorni, che a disegnalli nun ce se riesce).

La salita è una colata di asfalto appiccicoso. È larga e brutta, pare il telo dell’angolo latrine giù al Campo. Il sole d’inizio estate ruba tutta la forza. Meno male che Palma è un treno a molla, anzi, una macchina con le ruote enormi, gigantesche, praticamente un 4×4; di più, una locomotiva, no, meglio ancora, un carro armato di quelli veri, non le Micromachine tarocche che vende l’edicola. Adesso Palma è senza benzina, però; ansima.

Megghi La Capa si gira e fa la faccia cattiva, gli occhi freddi. Dice Palla mòvite o te metto ’n fondo. Poi si volta di nuovo verso la cima e ricomincia a salire, con la treccia che le sbatte sulla divisa e il Guidone in mano.

Il Guidone è un’asta con una bandierina lercia in punta e vari trofei (pelosezze innominabili, scubidù coi colori di Squadriglia, una zanna di plastica). Palla invece sarebbe Palma. È il suo unico nome, qui. Quando chiede alle compagne se possono smetterlaperfavore, le Tigri rispondono sempre che non dipende da loro, che è colpa sua; che se Palma continua a ingrassare, l’anno prossimo sarà questo il suo nome Totem, il suo animale guida. Pesce Palla. Poi ridono. Sono stronze, le Tigri. Agli scout le parolacce è meglio non dirle. Se i Capi ti sentono c’è il rischio che ti levino la Promessa, il fazzolettone al collo. Il 25 giugno 1993, ad esempio, è successo all’ultimo di Squadriglia dei Puma, Carlo B., che è piccolo sì ma ha tipo bestemmiato durante l’alzabandiera. Palla, invece, le parolacce non le dice mai in pubblico. Il fazzolettone lei l’ha preso da poco, ma ne va già fiera. Soprattutto per via della quantità di monnezza che ci ha attaccato sopra, compreso il portachiavi di Silvestro.

Sono stronze, le Tigri. Stefania dice che è perché sono tutte femmine. Che i gruppi di sole femmine diventano bestie peggio dei maschi. Ma Palma lo sa come stanno le cose. Lei in effetti non è una locomotiva, al massimo è un vagone. Uno di quelli col piombo dentro e la scritta TRASPORTO MERCI sulla fiancata.

«Ma quanto manca? Ferme un attimo che mi devo riallacciare».

Se a parlare fosse stata una delle gemelle, Megghi La Capa si sarebbe incazzata sul serio, e le altre sarebbero state autorizzate a scompisciarsi. Invece è stata Sofia la Roscia, da appena due mesi detta anche La Vice. Dal giorno in cui è salita di grado, Sofia è un’autorità, una dea minore; è lei che dispensa meriti e demeriti se per qualche motivo Megghi salta riunione o fa ritardo.

Palma questo lo sa bene. Perciò non si stupisce quando Megghi, ormai un centinaio di passi più avanti, s’arresta di botto. Mentre la Roscia è china a sistemarsi gli scarponi contro il guardrail, la Squadriglia si ferma a bordo strada. Poi sulla ghiaia sbattono una borraccia e una gavetta di panini, spaventando un nido di passeri col suono del metallo sul metallo.

«Scusate ma comunque davvero quanto manca possiamo vedere la cartina pure noi alla fine dobbiamo imparare cioè» fa Franci Navarra mentre recupera quel che ha fatto cadere e si prende una gomitata dalla sorella. Ma è già tardi. Megghi sbuffa forte «vabbe’, nun ce credo. Ve dovete sempre comporta’ da regazzine. Dovevate favve ’n antr’anno da lupette, voi due». Lena fa per difendere la gemella, poi ci ripensa e mastica il labbro di sotto coi denti davanti.

Anche Palma si morde la lingua e incassa la testa fra le spalle. Lei il Branco non l’ha fatto proprio,per questo è in fondo alla catena alimentare. Guarda nervosa il guardrail, che pare friabile contro il baratro, e poi inquadra Megghi con la coda dell’occhio, sperando d’avere il tempo di sedersi. Si comprime i fianchi con le mani. Forse se cerca di rallentare il cuore col pensiero, se lo vuole abbastanza, lui smetterà di cercare di esplodere. Palma si chiede se è questo che è successo a nonno.

La Capa tira fuori dallo zaino la bussola e le dà una letta, ma vabbe’ mica serve davvero. Si ricorda benissimo la strada, Megghi: gliel’hanno indicata Chicco e Silvia dal Pandino quando li ha accompagnati di straforo a fare cambusa, a inizio Campo. Era il giorno che i capireparto si sono chiusi in tenda per due ore. Megghi allora aveva mollato Palla e le Navarrine alla Roscia, e s’era fionnàta nella macchina degli aiutocapi. In teoria nessuno del Reparto può uscire dal Campo, ma si sa che a Chicco lei un po’ je piace e quindi tuttapposto. Che se lo scoprono Sara e Diego so’ cazzi, ma vabbe’, alla fine er problema è de Chicco: è lui quello grande, a settembre diventa maggiorenne. Infatti la guidava Silvia la macchina, ché lui non può ancora, pure se so’ già du’ anni che c’ha il motorino. È ’n fico, sur motorino. Vabbe’ che era fico pure sur Pandino, lui è sempre fico. Infatti Megghi quel giorno stava sul sedile di dietro, e di nascosto infilava la mano tra lo sportello e il sedile del passeggero, e prendeva le dita di Chicco e gli pizzicava il sedere, e ridevano forte. Che poi Silvia avrà pure capito qualcosa, è più grande, mica è scema, e poi a un Campetto di Pasqua hanno pure pomiciato, Silvia e Chicco, quando stavano ancora a Reparto loro, anni fa. Infatti fra tutti gli aiuto-Capi Silvia è l’unica che a Megghi je sta popo sur cazzo. Chissà che stanno facendo adesso, Silvia e Chicco. Ma che fanno i Capi e gli aiuto-Capi quando le Squadriglie vanno in Hike? Vabbe’, che anzia. Raccoglie il Guidone e riprende a camminare.

«Ve date ’na mossa? Volete dormi’ da le monache?»

Le ciocche ossigenate che ha sulla fronte le danno un’aria minacciosa. Sembrano le antenne di un insetto che pizzica. A Palma piacerebbe molto portare una frangia così, ma lei è tutta guance, e poi Stefania dice che è ancora troppo piccola, e Clara su questa cosa ci ha riso due giorni. Stronza anche lei.

«Fila! Fila!»

Sofia fa segno alle altre di alzarsi e adempie all’unico suo compito di Vice. Alza la voce anche lei.

«Ti-griii, in fila! Palla devi stare dritta, manco ci siamo mosse e già sbandi?»

Palma ci prova, in mezzo al frinire delle cicale e al tanfo di concime. Il fiato inizia a squagliarsi sui denti. Le cosce pizzicano appena dietro il ginocchio, ma di più in mezzo alle gambe, dove la ciccia riempie due manate; il sudore le incolla le palpebre e i lobi delle orecchie. Il calzoncino d’acetato sono stati la scelta più stupida e manco l’unica: hanno iniziato tardissimo a venir su. E se la notte si passa fuori chissà cosa si trova, come andrà il pernotto, quanta paura metteranno le suore.

Megghi gira a destra. È finito l’asfalto. Il sentiero s’arrampica come una serpe fino al frattone in cima al colle. Ma non salgono per il panorama, le Tigri. Hanno una Missione e molta fretta.

«Cambiooo!»

La penultima della fila si leva di dosso buste, vernici e pennelli. Alle Tigri non pare vera, la nuova pausa benedetta, e il passo si blocca. Si blocca così di botto che Franci centra il tallone di Palma con la punta dello scarponcino. Palla incespica; non può aggrapparsi alla treccia di Megghi, che è molto più in alto, né cercare aiuto dietro di sé. La caviglia si piega e Palma finisce a terra. Le Tigri ridono.

«No eh? Non ci provare Palla. Mo’ tocca a te, l’abbiamo portata tutte. Alzati».

Poi, più forte, «Megghi! Palla non si carica i barattoli!» urlano mentre la Roscia gira la testa in direzione della statale, le Navarra si scambiano mezzo thermos d’acqua vecchia.

«Fatela finita».

Megghi irrompe davanti alle squadrigliere a mo’ di slavina. Con la stessa grazia lancia la sacca dei materiali di Missione a Palma, che è tornata più o meno in verticale. La sacca va per terra, che Palla si sa c’ha le mani mosce. I barattoli fanno un gran casino. La latta del rosso scappa fuori dalla busta e finisce addosso alla gemella coi codini, che ferma il viaggio del barattolo col piede. Si china e lo passa a Megghi.

«Grazie Lena. Vabbe’ ho capito, te carico io, Palla, gìrate».

La Capa lega i manici della sacca alla borraccia che penzola dallo zaino di Palma, immobile. Li lega con un bel nodo piano, facile facile, sul moschettone di metallo.

Palla contempla la possibilità di parlare. Non può farcela. Ha i capelli fradici e i polpacci che tremano. Si sente come all’inizio di quel sogno. Una volta Palla ha depositato due lustre sacche di grasso sul cemento del cortile, a scuola, nel bel mezzo dell’ora di ginnastica, ed è apparsa in tutta la sua nuova, fascinosa secchezza davanti a Andrea Tomassini, III C, con la tuta che le ballava addosso a mo’ di tendone, e lui le diceva anvedi! Poi si è svegliata.

«No Megghi dàitiprego. Per favore. Mi sento male, ecco già mi faceva un po’ male la pancia ora anche il piede».

«Nun esiste. Manchi solo te».

Poi, forse mossa a compassione dal colorito di Palla, La Capa aggiunge «veggiuro che manca pochissimo eh rega’? Ce restano solo i gradini».

Allunga una mano verso la cima e fa «Là ce sta ’r cartello, ’o vedete? Se fa ancora ’n tempo. Famo er murales, scattamo du’ foto, ringraziamo ’e monache e pe’ le otto ristamo ar Campo».

Sarà la parola gradini. Sarà la questione del cartello, che a Palma sembra reciti Eremo di Santa Scorbutica, seimilachilometripiùsu. Ma adesso pure gli occhi di Palla sudano. Le Navarrine le fanno il giro intorno e la sorpassano, rimettendosi in fila e bisbigliando qualcosa.

«Tigri-fila, fila-Tigri, Tigri-filaaa!»

La Roscia ci prova. Non sortisce effetto. Palma è piantata in mezzo alla salita, che in quel punto è ’na pettata che manco li muli. Ha la faccia paonazza e non muove un muscolo. Non ce li ha proprio, i muscoli. Per dare sollievo alle spalle e al collo, arrossati dal peso dello zaino, Palma si cala gli spallacci e li fa scivolare, fino a reggerli solo con la parte interna dei gomiti. La stoffa le sega la pelle; per non parlare della cinghia, quella striscia di sicurezza che va dal dorso dello zaino e ritorno stritolandole le cicce, che Stefania dice che se non la tiene allacciata mentre cammina le verrà la scoliosi e il dottor Mauro dovrà metterle il busto.

La Roscia è l’ultima a superarla e mentre le passa accanto la struscia col braccio, e dice piano «ti aspetto io ai gradini se le altre non si fermano. Però almeno provaci, che ne so, fai finta».

La pietà della Vice non è cosa di tutti i giorni. Palma all’inizio non reagisce, poi si passa il palmo sulla bocca e sul naso, asciuga la mano sui calzoncini, tira lo zaino per terra. Ha il segno della cinghia a spiegazzarle la camicia, e sulla schiena un’enorme chiazza bagnata. Si china sullo zaino e tocca appena il moschettone, e dice «la porto in mano ok? La porto in mano» ed ecco, quello è il momento in cui succede la caciara.

La sacca dei barattoli si stacca e scivola lungo il lato dello zaino allargandosi in mezzo al sentiero, così le latte scappano fuori. Stavolta però, oltre al rosso, scivolano via pure il tubo di pennelli, il bianco, il blu. E non c’è nessuno a pararli. Palla li fissa impotente immaginandosi delle mani più leste delle sue, un sasso messo provvidenzialmente di traverso: invece quello dei barattoli è un cammino di libertà. Le Tigri si accorgono del disastro solo per via del suono che emette Palla, una specie di guaito. Palla, che sta lì: parte del panorama. Palla che segue ancora con gli occhi la corsa dei barattoli, che ora hanno raggiunto una velocità da videogioco. Palla che si sente addosso alla schiena il giudizio lo sguardo le voci di tutta la Squadriglia, le gemelle che bisbigliano, Sofia che impreca, Megghi che urla. Urla più forte. Sovrasta tutti gli altri suoni e fa zittire le cicale, si mangia il prato, spiana il sentiero.

Allora Palla inizia a correre.

Rotola Palla lungo il sentiero, fantavalanga, macina i metri che è una bellezza, rimbalza da un ramo all’altro, si sente un coniglio, una bestia del bosco; non pensa che la risalita sarà dura, non pensa che ha sete, che sfiata la gola. Per una volta pensa solo in avanti: pensa che è veloce, spaventosamente veloce, finalmente. Acchiapperà le latte prima che finiscano nella scarpata, salverà la Missione e sarà la locomotiva più forte di tutti. E avrà un nome Totem fantastico.

Ma lei è Palma la Palla.

E la Palla non vede la buca. Le Tigri vedono lei. La vedono prendere in pieno l’inciampo e finire sbalzata in strada, a mezz’aria. La vedono planare verso il guardrail, improvvisamente leggera, il metallo l’unico ostacolo che possa fermarne la gommosità.

Volerà Palla fra i carpini della valle? Niente salite né sudore? È qui, mentre aspetta di sapere se atterra, che Palla capisce tutto: se prendi la rincorsa giusta non pesi nemmeno più. E allora affanculo i barattoli, le salite, le discese; affanculo le borracce e le frange ossigenate. Affanculo le monache e gli Andrea Tomassini e tutte le Cape e le Vice del mondo, rosce e no. Affanculo il divieto de mannalli affanculo, soprattutto. Che questa del 29 giugno 1993, orario approssimativo cinque meno un quarto (di pomeriggio), è la volta che Palma si è giocata il ginocchio, ma è anche la prima volta che ha pensato seriamente d’ammazzarsi.

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