Ennio Flaiano (Pescara, 1910 – Roma, 1972) è un autore geniale, che si è dedicato principalmente alla forma breve, dal racconto all’aforisma. La sua prosa è fatta di frasi lapidarie, di periodi essenziali, molti in forma nominale. Alcuni credono che la sua attività da giornalista e sceneggiatore abbia influenzato anche il suo modo di fare letteratura; altri invece lo ricollegano a un suo aspetto caratteriale, dato che lui stesso si è sempre definito uno scrittore “pigro”. Ma questa è soltanto una maschera che Flaiano si divertiva a indossare. La sua scrittura, infatti, è solo apparentemente sciatta perché, in realtà, dietro nasconde una poetica ben precisa… – L’approfondimento su alcune delle sue opere più importanti, a partire dall’unico romanzo, “Tempo di uccidere”

È l’accusa che è stata rivolta a Ennio Flaiano (Pescara, 1910 – Roma, 1972) con più frequenza, quella di “scrivere male“. Del resto è stato proprio lui a dirlo, in un’intervista a Ottavio Rosati: “Non sono nato per fare lo scrittore, né so scrivere. Scrivere è una fatica laboriosissima”.

Ovviamente è un’affermazione che va contestualizzata e non lasciata in sospeso, isolata, come spesso accade con le frasi dello scrittore di cui, il più delle volte, si conoscono solo citazioni. Il destino della sua prosa è stato quello dell’aforisma: da un lato perché di fatto Flaiano si è dedicato a questo genere, dall’altro perché il suo stile si presta particolarmente a essere frammentato e ridotto in brani brevi e autonomi.

La sua scrittura è fatta di frasi lapidarie, di periodi essenziali, molti in forma nominale. Alcuni credono che la sua attività da giornalista e sceneggiatore abbia influenzato anche il suo modo di fare letteratura; altri invece lo ricollegano a un suo aspetto caratteriale, dato che lui stesso si è sempre definito uno scrittore “pigro”.

Potrebbero essere vere entrambe le ipotesi. “Se uno si abitua ad architettare e scalettare una storia”, dichiara in un’intervista a Alighiero Chiusano, “il guaio è che poi non resta né il tempo, né la voglia di scriverla, specie se si è pigri per natura come me”. Oppure potrebbe essere soltanto una maschera che Flaiano si divertiva a indossare. La sua scrittura, infatti, è solo apparentemente sciatta, perché in realtà nasconde una poetica ben precisa.

“Il difetto principale dello scrittore italiano è quello di voler scrivere bene. Io cerco di scrivere male ‘apposta’, nel tentativo di farmi capire”, spiega a Gianni Rosati. Questo significa che il suo principale obiettivo è quello di riuscire a comunicare con il lettore. C’è troppa confusione, secondo Flaiano, a partire da quella linguistica.

Anna Longoni, nell’introduzione all’edizione di Adelphi delle Opere Scelte, ricorda la descrizione di una Babele in cui diversi studiosi non riescono ad accordarsi nemmeno sul significato dei segni più elementari (“e là dove entrata può anche significare uscita gli ingorghi si fanno inevitabili”); o ancora, il passaggio in cui lo scrittore immagina un futuro in cui gli archeologi confonderanno i lasciti della nostra civiltà, fraintendendo completamente chi siamo stati.

le ombre bianche flaiano

Forse è proprio per favorire una comunicazione più chiara e diretta che Flaiano preferisce la forma breve. Di tutti i suoi libri, non a caso, soltanto uno è un romanzo: Tempo di uccidere, pubblicato nel 1947 dalla casa editrice dell’amico Leo Longanesi, con cui l’autore ha vinto la prima edizione del premio Strega. Un testo che, apparso in pieno clima neorealista, si è fatto notare per il suo spirito innovativo e originale. Nonostante sia ambientato durante una guerra colonizzatrice nell’Africa Orientale (Flaiano aveva preso parte all’impresa del 1935 – 1936 come ufficiale del Genio), il libro presenta tratti onirici e surreali, tanto che si è parlato di “realismo allegorico”, “realismo dei sentimenti”, “surrealismo mistico e mitico”, di “romanzo profetico”.

tempo di uccidere ennio flaiano

Racconta l’avventura per niente eroica di un uomo a cui scoppia improvvisamente un mal di denti. Da questo evento, banale e comune, si innescano una serie di episodi inaspettati che lo portano a incontrare un’indigena con il turbante. I due si uniscono carnalmente, ma il protagonista la uccide per errore, salvo scoprire in seguito che la donna era affetta da lebbra. Terrorizzato dall’aver contratto la malattia, l’uomo scappa e inizia una peregrinazione assurda che si concluderà con il suo ritorno in Italia. Tuttavia, una volta a casa, anche se scopre di non essere stato contagiato, continua a essere assalito dall’angoscia e dai rimorsi per le azioni compiute in guerra: “Forse non si tratta più di lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico”.

Tempo di uccidere è comunque un unicum nella produzione di Flaiano, che si dedica da questo momento a testi di respiro più corto, e alla scrittura cinematografica e a quella giornalistica. Quello che però mette in luce il romanzo è una rosa di temi che saranno poi ripresi nelle sue successive opere: temi come l’errore, l’inettitudine, la colpa, la malattia e, ancora una volta, il rapporto con la parola. Una parola che fallisce sempre, perché incapace di comunicare davvero. Come nell’incontro tra Miriam e il tenente, in cui l’uomo, non conoscendo la lingua della ragazza, cerca disperatamente di farsi comprendere disegnando sul suo taccuino alcuni schizzi. Inoltre, tutti i dialoghi tra i personaggi sono ricchi di sottintesi e malintesi, di bugie e contraddizioni. Ma è proprio da questo non detto incomprensibile che scaturisce la tragedia e, insieme, la risata.

Diverte allo stesso modo un evento realmente accaduto allo scrittore, nel 1968, in occasione dell’uscita di una nuova edizione del romanzo. Scrive a Guido Bezzola: “Mi è successo un fatto abbastanza divertente e allegorico. L’editore, mandandomi le copie di una nuova edizione ‘club’, mi ha mandato delle copie con le pagine tutte bianche, i fac-simile dei commessi viaggiatori. Le ho accolte con vera gioia, tentato di servirmene come quaderni di appunti che non scriverò mai. O forse bisogna vedere nell’errore un disegno più perfido, il giudizio già segnato per un autore che si è fermato al primo romanzo non avendo più niente da dire“.

Niente più romanzi, quindi. Del resto, lo dice anche lui che può fare “buoni libri il medico o il bottegaio nelle sue ore di libertà: non lo sceneggiatore, di regola, né il giornalista. Quando ci si rimette davanti alla pagina, dopo un po’ che si è lavorato come sceneggiatore, bisogna ridimensionarsi di dentro con enorme fatica”.

una e una notte flaiano

Flaiano si dedica allora alla stesura di racconti. Nasce così Una e una notte (1959), in cui il testo che porta lo stesso titolo della raccolta narra la storia di Graziano, un aspirante scrittore che trascorre la vita annoiato, cercando di sedurre senza successo più donne possibili. Lavora come giornalista, ma il suo vero sogno è la letteratura. Durante la notte immagina frasi e periodi eleganti, che però riescono a sopravvivere solo nell’arco del dormiveglia perché, appena si trova davanti alla pagina bianca, si blocca irrimediabilmente. Nessuno sembra capirlo e, quel che è peggio, nessuno leggerà mai qualcosa di suo. Un giorno, però, accade qualcosa che potrebbe rivoluzionare la sua carriera: una giovane donna con cui ha passato la notte lo rapisce e lo porta su un’astronave. Solo che, per l’ennesima volta, Graziano non riesce approfittare dell’incredibile occasione e, quando ritorna sulla Terra, scopre di essere stato licenziato.

Anche lui, come il tenente di Tempo di uccidere, è una figura inetta, incapace, eppure divertente e ironica. Non solo, in questo testo è presente un’altra cifra caratteristica che rende la sua prosa ancora più esilarante e pungente: l’elemento grottesco e surreale (costante di molti racconti, come per esempio Un marziano a Roma, in cui i cittadini romani rimangono sbalorditi dall’arrivo di un alieno a Villa Borghese).

Flaiano ricorre spesso a figure retoriche come il paradosso, la battuta e l’iperbole, che troveranno largo spazio anche ne Il gioco e il massacro (1970) e nel Diario degli errori (postumo).

Quest’ultima raccolta in particolare abbraccia tutti gli ultimi scritti dell’autore, gli appunti di lavoro e i frammenti rimasti sulla sua scrivania. Si tratta per lo più di frasi spezzate e aforismi, che però non devono essere considerati come testi incompiuti, anzi: sono proprio quelli che si configurano come più “autenticamente flaianei”, perché rappresentano a pieno il suo amore per l’essenzialità e la sua vocazione per la forma breve e per la satira. Probabilmente l’autore li avrebbe lasciati esattamente così: “Sono portato alla nota, allo schizzo giornaliero, alle cose che ‘dopo’ formeranno un volume”. Quanto all’ironia, “credo che mi liberi di tutto quello che mi fa fastidio, che mi opprime, che mi offende, che mi mette a disagio nella società”.

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