La storia di quattro fratelli. Anzi, il viaggio che porta ciascuno di loro a incontrare il padre, Antonio Michelangelo, un uomo che ha attraversato il Novecento: su ilLibraio.it un estratto da “I fratelli Michelangelo”, il nuovo romanzo di Vanni Santoni

Vanni Santoni, autore toscano classe ’78, torna in libreria con l’atteso I fratelli Michelangelo (Mondadori).

Santoni, che collabora con La Lettura, e che è anche editor della collana di narrativa della casa editrice Tunué, in questo nuovo romanzo racconta la storia di quattro fratelli (stesso padre, ma madri diverse); anzi, il viaggio che porta ciascuno di loro a incontrare il padre, Antonio Michelangelo, un uomo che ha attraversato il Novecento, che dirige alcune delle maggiori aziende del paese, un artista riconosciuto in più campi, i cui successi pubblici eguagliano i disastri della sua vita privata.

vanni santoni

Un giorno, dopo anni di silenzio, i cinque figli ricevono un invito a raggiungerlo a Saltino di Vallombrosa, la località in mezzo ai boschi della Toscana dove si è ritirato. Solo quattro di loro, però, ognuno con aspettative diverse, si metteranno in viaggio per raggiungerlo: Enrico, cresciuto nella convinzione di essere figlio di un altro uomo, sta passando un periodo in Israele proprio alla ricerca delle radici del suo presunto padre; Louis si barcamena da anni tra lavoretti in un villaggio turistico di Bali, tentativi imprenditoriali nel subcontinente indiano e traffici illeciti; Cristiana, ossessionata dall’ambizione di emergere nella scena dell’arte contemporanea, si sposta convulsamente tra le capitali europee di tendenza in cerca di una svolta; mentre Rudra, sportivo e biologo, si è trasferito giovanissimo il più lontano possibile dalla sua famiglia disfunzionale, ha sposato un ragazzo svedese e oggi lavora in una scuola materna.

Per la prima volta nella storia della famiglia, i fratelli saranno sotto lo stesso tetto: cosa vuole da loro Antonio Michelangelo? È forse in fin di vita? Vuole disporre delle sue ultime volontà? Oppure ha deciso di rivelare ai figli qualcosa di terribile, inconfessabile?

Santoni, che con la rivista L’indiscreto di recente ha rilanciato le classifiche di qualità dei libri, è autore di diverse opere, tra cui La stanza profonda (Laterza), con cui è stato candidato al Premio Strega, e la serie Terra ignota (Mondadori).

Per gentile concessione dell’editore, proponiamo un estratto:

– Senti Enri ti devo dire una cosa, vieni a Viareggio?
Si capisce che se tua madre ti telefona a tarda sera, mentre sei all’estero, e attacca così, senza prima chiedere come stai, come sta andando il viaggio, se hai mangiato sano, cos’hai fatto durante il giorno, senza lamentarsi che il giorno prima non l’hai chiamata e soprattutto senza dire la cosa subito, ti preoccupi, pensi subito a dei gran casini, il tempo di arrivare a dire:
– Che c’è, ma’,
e la stanza viene giù, il telefono nella mano diventa l’unica cosa ferma mentre gli scaffali pieni di volumi dalla costola incomprensibile, i quadretti buffi al muro, la scrivania piena di album da disegno e bottiglie di Goldstar trasformate in vasi da fiori, tutti gli oggetti di questa gente che ti ha affittato casa per un mese precipitano in una vertigine di pensieri oscuri e generici… Punti di nerofumo, in fondo, i peggiori: l’ombra della malattia, della morte, tutto un carico di dolore, sbattimenti e responsabilità da gestire, mi do arie da persona in pieno controllo, la gente ci crede pure (e anch’io un poco), ma sono ancora per lo più confuso, se ora accadesse qualcosa anche alla mamma, mi toccherebbe mettere davvero ordine, un ordine radicale, rapido e quindi approssimativo, io che ho sempre organizzato l’esistenza allo stesso modo in cui si fa un acquarello, mentre quello in arrivo sarebbe un ordine spietato, architettonico, foriero di cambi in peggio di un paradigma che, a parte le solite cose – il denaro che potrebbe esser di più, la siss da fare e il periodo di supplenze che ne seguirebbe prima di poter aspirare a un posto di ruolo, le questioni dello spirito (sulle quali dovrei star lavorando proprio adesso), il loro conflitto (ben visibile proprio adesso!) col desiderio – non si è neanche assestato male, proprio niente male… Un buon disegno, un passo dignitoso, un’esistenza che un si sarebbe potuta dire immatura ma funzionante, diciamo pure godibile, sporcata giusto da un panorama di ansie in fin dei conti vaghe, saranno due anni, anzi tre, che non prendo un mezzo Xanax…
– Mamma, se mi dici così mi preoccupo.
– Ti preoccupi? E di cosa?
… Vaghe ma pronte a tornare, a precipitare: la sensazione di essere in una nave di cui non si è mai vista la sala macchine; la possibilità che non vi sia alcuna sala macchine; la sensazione di stare in un mondo mosso da rotelle che si formano per pura contingenza nell’entropia (e il desiderio come unico appiglio, una corrente capricciosa che scorre in mezzo a tale incertissimo apparato)… Per forza le persone, quando i genitori invecchiano, si ammalano, muoiono, corrono a sposarsi, si impegolano in mutui, si riproducono sebbene il giorno prima si lamentassero di non aver soldi neppure per sé: almeno si collocano in mezzo a qualcosa, piccoli sistemi di spaziotempo all’apparenza controllabile, sistemi addirittura di potere alla nascita dei bambini, la delega della questione del senso alla sola biologia… Forse quando il babbo è morto avrei dovuto sposarmi, e invece tempo sei mesi mi sono lasciato, sono rimasto con la mamma anche se la mamma è a quattrocento chilometri da casa mia e a tremila da dove mi trovo adesso… Così ora il destino viene a castigarmi per aver mosso in direzione contraria, insana…
– Dai ma’, che mi finisce il credito, cosa c’è, cos’hai?
– Io? Ah io niente. No, no. Io? Figurati. Ih ih.
– Ti prego, fai la seria.
– Tranquillo Enri, dai tranquillino. Vieni allora?
– Prima dimmi cosa c’è!
– Ma niente… È su tuo padre, ecco.
– Sul babbo?
Penso a mio padre, lì a decomporsi, sempre che sia possibile farlo in una bara zincata, in uno di quei vani alti di cimitero, un loculo di cemento chiuso da una lastra di marmoresina, cosa vuoi decomporti se te ne stai lì rivestito di abiti e zinco e legno e cemento, certo così non possono arrivare i vermi, a meno che non si formino da soli come si credeva una volta… Un giorno, da piccolo, al mare, portai il solito carico di chiocciole, gli insetti mi facevano impressione, i ragni mi terrorizzavano proprio, ma in compenso ero in fissa con le chiocciole e a quei tempi la passeggiata di Viareggio era piena di agavi che ne erano infestate, le raccoglievo a dozzine e le portavo a casa, una volta ne trovai una veramente grossa, girava per il giardino lasciando la sua scia brillante ma qualcuno la pestò, a quei tempi non avevamo ancora comprato la casa in cui poi la mamma si è trasferita e stavamo da questa vecchia coppia che d’estate si spostava nei fondi e faceva una vita nascosta, umbratile, l’unica loro manifestazione il giretto in giardino del marito, uomo grosso e silenziosissimo, sui settanta, occhiali fumé, piedi pesanti nei sandali, mezzo cieco faceva il suo giro godendosi una Merit, pestando chiocciole, e quella chiocciola morta ben presto nel caldo prese a far vermi, sembravano uscire dalla sua carne e mangiarla e mangiarsi a vicenda mentre io accoccolato assistevo inorridito e incantato e intanto arrivavano anche le formiche, ma è chiaro che chiuso là nello zinco, senza mosche o chissà quali esseri ctonî a deporre uova, niente larve, vermi e bigattini, niente vita dalla morte, te ne stai lì a seccare, a ridurre, a torrefare; forse in alcuni casi, stanti determinate condizioni termoigrometriche, a mummificare, cosa che mio padre il prof. Paolo Martini farebbe senz’altro con modestia e un filo d’ironia, fino al giungere del momento di sgomberare il loculo, togliere la lapide (che poi dà nell’occhio, lì al cimitero di San Giovanni Valdarno, quella lapide con la Stella di David, pare quasi un vezzo da originaloni), tirar fuori la carcassa del povero babbo, veder se è mummia o mucchio d’ossa in completo blu (neanche il kittel, gli abbiamo messo… La stella sulla lapide sì e il kittel no, tutto fatto alla cazzo come sempre quando c’è la mamma di mezzo, avessi saputo allora…) o ancora assistere al mistero tremendo dell’inavvenuta decomposizione, e consegnarla… A chi si consegna? All’ossario, forse, oppure a una tardiva cremazione – sarebbe curioso, seppellire per poi cremare, equivarrebbe a sostenere che l’anima ha un certo tempo per andarsene dallo zinco ai grandi e giusti lidi, e quello che rimane, a quel punto, è davvero solo spazzatura, buona da bruciare, da termovalorizzare…
– Lo vogliono togliere?
– Cosa?
– Dico, lo vogliono rimuovere dal cimitero per far posto a un altro morto?, e mi sovviene l’unica volta in cui vidi il babbo in qualche modo avventuroso, e in qualche modo giovane: una gita domenicale, io piccolo, sei o sette anni, la scoperta di un cimitero abbandonato dalle parti di San Gusmè, e lui un ragazzo che andava tutto pieno di esaltazione ad aprire cancelli e scoperchiare pozzi fino al brivido gaio della scoperta, Uuuh! Venite a vedere, qui c’è l’ossario..!
-Ma come ti viene in mente, Enri? No, figurati. Dopo così poco tempo, poi… No, no, è una cosa sul babbo, sì, ma che ti riguarda, insomma vieni, è importante, te la devo dire di persona.
– Ti ricordo che il mio volo è tra dieci, no, undici giorni.
– Te l’ho preso.
– In che senso, ma’.
– Ti ho comprato un biglietto. Guarda nella mail.
– Ma se non sai neanche cercare una roba su Google!
– L’ho preso con l’agenzia. Parti domani…
– Domani quando?!
– Le sette di mattina…
(che, calcolando l’anticipo con cui si deve andare all’aeroporto da queste parti per farsi interrogare e perquisire,   fanno le tre e mezza. Ed essendo ora le ventitré…)
– Mamma, cazzo.
– Enri, non fare storie.
– Ti rendi conto del culo che mi sono fatto coi corsi per strappare questo mese libero?
– È una cosa importante, davvero.
– Così importante che non me la puoi dire tra dieci giorni?
– Sarebbe troppo tardi. Insomma, vieni, poche storie. Ha a che fare con tuo padre, te l’ho detto.
– ?מה קורה
A quella domanda, di cui comprendo solo l’intonazione, il suo essere, appunto, una domanda, la stanza riappare, riappaiono le bottiglie di Goldstar, i quadri alle pareti, riappare il letto dietro di me e… Come si chiamava? Shiran? Shiran, sì, i soli piedi coperti dalle lenzuola:
– What?
– I said ?מה קורה, which means: what’s up?
– Uh, nothing, my mother…
– Ah! La mamma!
– Ci facciamo sempre riconoscere… Listen, Shiran, I’m sorry but I have to start packing… You know, my mother… Well, my mother is crazy.
– For real? Ride lei dal letto.
– That… Is something I’ll discover tomorrow.

(continua in libreria…)

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