“Nella vita siamo sempre in un gioco d’azzardo e senza che mai ci sia una fine…”. ilLibraio.it ha incontrato Jonathan Lethem in occasione dell’uscita di “Anatomia di un giocatore d’azzardo”; il risultato è un’intervista in cui si toccano svariati temi, oltre ai tanti affrontati dal suo ultimo romanzo. Si parla di generi, riferimenti letterari, del legame, strettissimo, tra l’autore e l’Europa (“Ho cominciato a considerare New York una sorta di via di mezzo tra la realtà americana e quella europea”), di riviste e di scrittrici contemporanee: “Alcuni dei miei scrittori preferiti sono donne: Lidia Millett, Jennifer Egan, ma anche di generazioni precedenti come Carson McCullers e Sherley Jackson hanno avuto una grossa influenza su di me. Hanno questa capacità di comunicare oltre i confini…”

Sentirsi più elefante bianco o più termite? Più autore che guarda dall’alto del suo piedistallo fatto di romanzi mastodontici e un po’ autoreferenziali il resto del mondo? Oppure attraverso generi più marginali come la fantascienza o la detective story rosicchiare il proprio spazio fino a invadere di sé il mondo? A questo dubbio amletico dai risvolti zoomorfi lo scrittore statunitense Jonathan Lethem, classe 1964, cercava di rispondere nel saggio L’estasi dell’influenza (Bompiani, 2013) facendosi beffe della teoria del critico Harold Bloom. Se allora si professava totalmente a favore delle minuscole termiti, oggi con l’uscita del suo decimo romanzo Anatomia di un giocatore d’azzardo (La Nave di Teseo, traduzione di Andrea Silvestri) a ilLibraio.it (che l’ha incontrato in occasione del suo recente tour in Italia, che ha visto protagonista Lethem al Salone del Libro di Torino e alla Milanesiana, ndr) rivela di non disdegnare i vantaggi che lo status di “pachiderma” può garantire. La commistione dei generi, tratto caratteristico della sua opera da La fortezza della solitudine (2003) a Chronic City (2009) o Il giardino dei dissidenti (2014), non manca in questo ultimo capitolo il cui protagonista è un antieroe di mezza età, Alexander Bruno, giocatore professionista di backgammon che vive sospeso tra Singapore e Berlino. Una malattia improvvisa, una macchia su quel bel volto che ha sempre vissuto di rendita grazie a carisma e avvenenza; e poi un’operazione e un costante senso di disorientamento per le strade d’America lo costringeranno a entrare in contatto con la propria interiorità e con i pensieri altrui che si introducono (telepatia o semplice empatia?) non voluti nella sua mente.

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Questo è il suo decimo romanzo. Cosa voleva raccontare?
“Volevo scrivere una storia sull’identità e sulla sua disintegrazione. Le implicazioni sono duplici: l’identità prima deve essere costruita, occorre che ci sia, anche senza una costruzione specifica; dall’altro lato volevo vedere quanto si può togliere a una persona pur facendola rimanere se stessa”.

E quale migliore metafora di quella del gioco d’azzardo. Dostoevskij docet.
“L’ho trovata un’immagine affine all’arte, un microcosmo che rappresenta la nostra esperienza, ma attraverso limiti e confini. Nella vita siamo sempre in un gioco d’azzardo e senza che mai ci sia una fine. Questo vale sia per il romanzo che per il gioco stesso”.

“La storia del mio libro è la storia di quanto rimane quando il giocatore d’azzardo perde tutto ciò che lo rendeva se stesso”. Lei considera il gioco più nell’ottica della possibilità di perdita che di vincita.
“Volevo creare una vita e rimpicciolirla al punto tale da poterla osservare dall’esterno. La conclusione, come dice lei, è che uno può essere sia vincitore che perdente. Il vero giocatore d’azzardo è però lì per perdere, per testare la propria mortalità. Perché muore senza morire”.

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In che senso?
“Si perde, si muore sul tavolo da gioco però alla fine si può tornare a casa. È un’ottima opportunità per cercare di rispondere alle grandi questioni della vita, ma con una certa soglia di sicurezza”.

Ed è quello che tenta di fare il protagonista.
“Se noi vogliamo creare la nostra identità dobbiamo trovare le cose da includere, ma anche quelle da escludere. E questo per Bruno è il grande problema, perché la comprensione di se stesso gli è stata un po’ impedita”.

Come mai?
“Nella maggior parte della sua vita si è infatti affidato alla sua bellezza e al suo carisma, sostituendoli alla capacità di vivere nel mondo”.

Superficie e profondità sono due elementi chiave del romanzo. Lei scrive: “I nostri volti sono superfici di proiezione, schermi su cui il sé incontra il mondo, e viene ricomposto negli occhi dell’altro”.
“Questa negoziazione tra la superficie e la profondità mi ha sempre affascinato. In fondo la vita è vissuta in entrambi questi reami. Spesso parliamo dei nostri sentimenti più profondi, citando l’interiorità, ma ci sono anche la maschera, la superficie, la rappresentazione. La vita è come il teatro, è una rappresentazione in cui noi ci presentiamo ogni singolo giorno e il ruolo che decidiamo di interpretare in questo teatro diventa la nostra realtà, diventa noi stessi. E a volte la superficie risulta più profonda dell’interiorità stessa”.

Da qui scatta la crisi…
“Improvvisamente, con l’operazione a cui viene sottoposto, Alexander si sente defraudato di ciò che lo caratterizza: bellezza e fascino. In questo modo ho voluto esasperare quella che è la crisi di mezza età dell’uomo moderno”.

Una crisi che è anche fatta di un senso di spaesamento. Questo libro ha infatti tante ambientazioni: da Berlino a Singapore. Il carattere urbano dei suoi romanzi è sempre molto forte, ma in questo caso non si affida a New York…
“Io sono newyorkese e ho una profonda devozione per la mia città, sebbene nello stesso tempo nutra costante perplessità nei suoi confronti. Fa parte di me, ci sono cresciuto e vissuto per cui non mi sento obiettivo nel giudicarla, costituisce l’idea stessa di città e della vita in sé. Non mi sono mai sentito a casa altrove negli Stati Uniti fino a quando non sono venuto in Europa e ho scoperto Roma, Parigi, Londra”.

Addirittura?
“Le confesso che prima non pensavo nemmeno esistessero altre città al di fuori di New York, se non quelle dei vaccari statunitensi. Invece sono riuscito ad avere un rapporto molto potente con l’Europa e da lì ho cominciato a considerare New York una sorta di via di mezzo tra la realtà americana e quella europea”.

E questo come ha influenzato la sua scrittura?
“In Europa mi sento un expat, una persona che non ha una vera e propria casa e dal punto di vista linguistico spesso mi capita di non capire tutto quello che sta succedendo, per cui è come se mi trovassi sempre in una sorta di superficie astratta. L’esatto contrario di Alexander Bruno”.

Per quale motivo?
“Bruno ha una specie di dipendenza da questo tipo di sensazione, del sentirsi migrante e straniero anche a casa propria. E in presenza della solitudine la percezione di vivere in un posto che in realtà non ci si acuisce moltissimo. E per lui questa è la condizione che costituisce parte della sua maschera: il sentirsi espatriato è un concetto molto romantico e lui brama questo tipo di emozione”.

Bruno ha dei “poteri” che lo rendono in grado di sentire i pensieri altrui. Riferimento a un mondo fantastico che ritorna nei suoi romanzi. Un’altra occasione di raccontare qualcosa che vada aldilà della superficie e della realtà?
“È proprio così: potremmo considerarla una metafora, ma è molto più. È un quoziente di quella parte della nostra esperienza che è misteriosa, che non è visibile, che non può essere nominata, che ci elude. C’è molto di più nell’esistenza di quello che noi riusciamo a formulare”.

Eppure ne abbiamo paura, come Bruno.
“La neurologia ha fatto dei tentativi e Bruno è terrorizzato da questa esperienza perché lui non vuole l’intrusione dei pensieri altrui nella sua mente. Per il lettore questo deve rimanere un elemento di mistero”.

Come mai?
“Bruno definisce telepatia ciò che qualcun altro chiamerebbe empatia o semplicemente un sentimento umano nei confronti degli altri. Eppure lui ha rigettato talmente tante esperienze dalla sua vita, che ha finito per escludere anche gli altri. Al punto che il suo sogno è quello di indossare degli occhiali a specchio: così tutti i suoi rapporti non riflettono che un’immagine al contrario, senza introiettare niente”.

A proposito di elementi fantastici, anche un suo contemporaneo, Michael Chabon – spesso a lei accostato – ne fa uso. Lei sente questa vicinanza?
“Credo che questa vicinanza sia un po’ sovrastimata, soprattutto quando si parla di generazioni parallele. Certo, mi interessano i contemporanei come Jennifer Egan, ma non esistevano quando mi sono formato. Ciò significa che non hanno avuto un’influenza diretta, come invece l’ha avuta la generazione precedente. Su tutti Don DeLillo”.

E quali altri autori l’hanno ispirata?
“La mia curiosità non si è mai limitata agli scrittori statunitensi. Anzi. Sono stato influenzato da autori non americani e ben pochi della mia età. Sto parlando di Kafka, Calvino, Graham Greene, Patricia Highsmith, Norman Myler. Non posso dire di essere stato ispirato da Chabon: certo, abbiamo delle cose in comune per l’età, ammiro molto le sue capacità ed è un connazionale, però più che un riferimento letterario è un amico”.

Rispetto al concetto di letteratura come intrattenimento che Chabon sottolinea, lei cosa ne pensa?
“Non ridurrei la sua opera a questo. Sicuramente i miei libri sono meno di intrattenimento dei suoi, le mie storie sono più contorte, sebbene abbiano un rapporto con lo storytelling popolare. Ciò che mi attrae di più dei libri di fantascienza, così come di quelli di detective e addirittura dei western, è il loro potere mitico, ma per aspetti particolari, che trascendono quelli di puro intrattenimento che questi generi normalmente prevedono”.

Stando a quanto scriveva ne L’estasi dell’influenza, lei oggi si sente allora più termite o più elefante?
“Questo ultimo libro attiene molto al mondo delle termiti. Eppure, celebrando questo mondo, devo ammettere che mi è stato affibbiato lo status di ‘elefante’ e sarei poco onesto se non dicessi che questo status non comporta dei vantaggi e delle opportunità. Beh, alla fine credo di essere diventato avido. E rivendico entrambi i ruoli”.

Oggi la letteratura femminile negli Usa ha sempre più peso. Che idea si è fatto?
“Per definizione la letteratura si trasmette proprio attraverso le diversità. Alcuni dei miei scrittori preferiti sono donne: Lidia Millett, Jennifer Egan, ma anche di generazioni precedenti come Carson McCullers e Sherley Jackson; hanno avuto una grossa influenza su di me e ho un grandissimo rispetto per il loro lavoro. Hanno questa capacità di comunicare oltre i confini. Basti pensare a come alcune autrici riescano a creare dei personaggi maschili fantastici e viceversa”.

Qualche esempio?
“Beh, Norman Rush, nel suo libro Mating, ha dato vita ad un personaggio femminile stupendo, il migliore che io abbia letto scritto da un uomo”.

È un esempio maschile, però.
“Ma il romanzo riesce a dare un’opportunità straordinaria di superare le barriere fra i sessi”.

A proposito di barriere, lei come vede il proliferare di riviste letterarie online, pensiamo anche al caso di McSweeney del suo collega Dave Eggers, rispetto a quelle tradizionali?
“Non penso che la cultura online debba rivaleggiare con quella cartacea. Credo che la letteratura possa fiorire in entrambi i ‘regni’. Lo stesso vale per le riviste. Ad esempio McSweeney’s è sia un magazine online sia fisico. Dal mio punto di vista ciò che è a me più caro non è minacciato dal mondo digitale. Sono un po’ feticista perché prediligo l’oggetto fisico, ma non perché abbia una superiorità etica. Si tratta semplicemente di una preferenza personale”.

L’attore Edward Norton proprio a ilLibraio.it due anni fa confessava di stare lavorando a un adattamento di Brooklyn senza madre (1999). Ha qualche aggiornamento?
“Non sto scrivendo la sceneggiatura, se ne sta occupando Norton. La mia posizione è quella dell’osservatore che ovviamente fa il tifo, ma non so molto di più. A Hollywood in effetti è molto difficile realizzare qualcosa. Spero ci riesca. L’attesa è stata lunga, perché ha acquisito i diritti non appena il libro è uscito. Mi auguro che oggi sia più vicino alla realizzazione del progetto”.

 

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