Nel caso di “La La Land”, il film del momento, riesumare un genere estinto non è un’operazione banalmente nostalgica, un vuoto giochino postmoderno, o un esercizio un po’ necrofilo e fatalmente sterile, ma una sfida ri-generante, dichiaratamente romantica, e anche perciò inevitabilmente trascinante… – L’approfondimento de ilLibraio.it, in cui si citano romanzi cult come “Meno di zero di Bret Easton Ellis, e tantissimi film: tra cui, “Otto e mezzo”, “Mullholand Drive”, “Sunset Bulevard”, “Un giorno di ordinaria follia” e…

Lei dice a lui: “Ce ne hai messo di tempo”. E lui, spavaldo: “C’era un casino di traffico”. La battuta finale da film americano, cliché di superba nonchalance yankee e ironica mise en abîme della convenzione in The Player (I protagonisti) di Robert Altman, geniale e a suo modo insuperato apologo su Hollywood, potrebbe essere messa tranquillamente come esergo di questo La La Land, in cui l’alliterazione (la lallazione?) musicale del titolo si (con)fonde fin da principio con la cacofonia primigenia della città, L.A. come Los Angeles appunto. È qui, in questa terra/asfalto, che il sogno hollywoodiano vede la luce, del sole naturalmente, e trova inattesa la prima soluzione armonica, in mezzo al rumore del traffico delle highways e al canticchiare scomposto dei destini incrociati dei singoli guidatori, il loro liberarsi dalle proprie colonne sonore personali per farsi d’improvviso coro, e danza, per un lungo (anche se concluso) momento di perfezione. E l’overture da applauso che inaugura, con un elaborato e costruitissimo piano sequenza, la pellicola di Damien Charzelle, potrebbe pure prendere le mosse, neppure troppo velatamente, dall’ombra in bianco e nero di un altro vertice di cinema sul cinema, sempre d’autore: quel sogno/incubo in apertura di Otto e mezzo che vede Mastroianni/Fellini letteralmente prigioniero del traffico del suo inconscio.

Bret Easton Ellis del resto lo ha scritto a chiare lettere, in apertura di quel ritratto disincantato e veggente della città degli angeli che è, fra l’altro, Meno di zero (Einaudi): “La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade di Los Angeles”.

E che quelle bretelle asfaltate intasate di lamiere, uomini e sogni, benzina, aspettative e frustrazioni, innervino, fra verità è simbolo, la città-cinema dal Sunset Bulevard a Mullholand Drive, di timori e tremori, passioni e disincanti, ingolfamenti ed improvvise esplosioni, abbiamo imparato bene a (ri)conoscerlo proprio nel buio delle sale cinematografiche, dal Michael Douglas intrappolato di rabbia nel veicolo di Un giorno di ordinaria follia al viaggio in auto Verso il sole del protagonista del film di Michal Cimino, solo per citare due esempi tanto distanti quanto parimenti icastici. Quasi che il destino di quelle macchine e di quelle persone, auto e uomini, il loro desiderio profondo, si sovrapponesse fino a coincidere (grande intuizione di James G. Ballard, poi messa in film da David Cronemberg, con Crash, Bompiani) in un solo corpo, personale e sociale, immaginario e concreto, pelle e pellicola. Buon giorno Los Angeles: Hollywood è una festa (auto)mobile.

Ecco che quella straordinaria traffic jam session, quel segmento d’ingorgo stradale, che apre questa stupefacente riscrittura del musical classico non è solo il colpo d’apertura dello show off pirotecnico di un regista iper-virtuoso, che ha già dimostrato la sua maestria ritmica e drammaturgica ampiamente con Whiplash, ma un meraviglioso connubio, senza soluzione di continuità, di realismo e magia, un perfetto incrocio di macchina (hollywoodiana) e corpus (autoriale), una spettacolare sintesi di originalità e omaggio alla tradizione, sospesa fra adesione alla convenzione e rinnovamento dello sguardo, paralisi (dei veicoli) e forza cinetica (dei corpi). Del resto questa cifra in bilico fra nostalgia e sperimentalismo, controllo millimetrico della messa in scena e senso dell’improvvisazione, lucidità da fondale di cartapesta e profondità della passione più vera del vero, che questa coreografia/scenografia urbana mette così bene in gioco e in moto, sembra quella che contraddistingue l’idea complessiva di cinema di Charzelle, e illumina bene la sua capacità di raggiungere al contempo critica e grande pubblico, di coniugare il coraggio innovativo e il gusto per la citazione, operando una riflessione sul cinema senza però rinunciare a fare del cinema uno spettacolo immersivo, potente e, visto gli esiti, decisamente da Oscar.

La La Land

Riesumare un genere estinto non è dunque un’operazione banalmente nostalgica, un vuoto giochino postmoderno, o un esercizio un po’ necrofilo e fatalmente sterile, ma una sfida ri-generante, dichiaratamente romantica, e anche perciò inevitabilmente trascinante, a raccontare ancora una volta, apparentemente, la solita storia (il canovaccio di A star is born, per intenderci, messo in scena dalla coppia cinematografica stellare del momento, Stone/Gosling, giunti già al loro terzo appuntamento sul grande schermo), ma con nuova linfa e un’energia sorprendente, capace di dire qualcosa di nuovo, qualcosa dell’oggi e molto del suo autore. L’omaggio al cinema quando era grande (che è almeno da Wilder che vede se stesso sul Viale del Tramonto) non passa soltanto per la riscoperta del musical, citato a man bassa dalla classicità di Un americano a Parigi e Cantando sotto la pioggia per arrivare alla modernità gioiosa di Hair o la patina nostalgica dello Scorsese di New York New York, facendo tappa dalla rielaborazione del genere con vena malinconica di Jacques Demy (su tutti Les parapluies de Cherbourg). Il recupero della potenza mitopoietica del grande schermo passa anche attraverso la rievocazione esplicita di quel cinema classico che, da Casablanca a Gioventù bruciata (di cui si rivisitano alla lettera i topoi), vede ridisegnata in filigrana la sua parabola.

La La Land

Ma l’apparato caleidoscopico delle citazioni non appare lo strumento per acquisire una distanza ironica ma piuttosto uno strumento per provare a far tornare grande il cinema, per esprimere all’interno della formula, con dichiarata modalità jazzistica, l’evolversi della forma, inserendo l’imprevedibile nel già noto (o, meglio, data la tonalità musicale, nella già nota). Del resto, se di puro esercizio di stile si trattasse, potremmo contentarci di due o tre sequenze magistrali, oltre a quella dell’incipit (si pensi alla seduzione recalcitrante in technicolor sulla panchina a passi di tip tap, o al caleidoscopico party hollywoodiano in piscina con ardimentosi e bagnati movimenti di macchina da far girare la testa, ma anche alla minimalista e intensa audizione su fondo nero che ritaglia il volto – danzante e occhieggiante – in primo piano di Emma Stone), ma la forza di La la land sta soprattutto nell’imbastire, a partire da una struttura narrativa e ritmica quasi perfetta (che di perfezione parla), una riflessione non banale sul sogno, e dunque sul reale, sul rapporto profondo e difficilmente separabile fra passione e illusione, e in ultima analisi sul senso dell’amare l’arte e sul segreto dell’arte di amare, due aspetti fondamentali dell’esistenza, secondo la prospettiva tutt’altro che consolatoria dell’autore condannati tuttavia a mutua esclusione. Per un genere apparentemente sedotto dalla forma, votato all’evasione e spesso tentato dalla consolazione, un esito tutt’altro che banale e hollywoodiano.

 

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