Nel suo debutto nel romanzo, “… che Dio perdona a tutti”, Pif racconta la crisi del risveglio di una coscienza che prende atto dell’ipocrisia della società in cui vive, in cui la fede viene declinata in apparenze che nascondono tornaconti egoistici e in cui l’apertura al prossimo è ammessa solo nelle forme liturgiche. E se la forza del libro non sta nell’originalità dei contenuti, la troviamo nella leggerezza di un umorismo a tratti grottesco – L’approfondimento

Ci sono un uomo, una donna, Dio, la Chiesa, Palermo. O, se si vuole, più nello specifico: un uomo trentacinquenne placidamente intrappolato nella routine di un lavoro privo di soddisfazioni come agente immobiliare; una donna di buona famiglia in procinto di intraprendere una carriera professionale proficua piovuta dal cielo nel posto giusto e al momento giusto; qualche prete di troppo e una preghiera pronunciata male; e, sempre, Palermo. Ma, soprattutto, ci sono gli sciù.

Tutti questi ingredienti, dosati bene – ad eccezione forse dello zucchero, che con la sua invadente onnipresenza finisce talvolta per predominare sul resto – compongono l’esordio narrativo di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif. Personaggio ormai noto in ambito cinematografico e televisivo, che con che Dio perdona a tutti (Feltrinelli) sceglie di declinare le sue abilità comunicative in una nuova veste. E in effetti, la scrittura non lascia dubbi: tra le righe si sente quasi risuonare la voce monotonale e dall’inflessione sicula che gli ha garantito un certo successo presso il grande pubblico.

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Che non ci sia nessuna intenzione di discostarsi dalle forme già sperimentate è confermato anche dalla scelta dei nomi dei personaggi: Arturo, alter ego per eccellenza in La mafia uccide solo d’estate, e Flora, la controparte femminile.

Tutto torna, per proporre stavolta la storia di un amore insperato nato sin da subito sotto il segno… divino. È improvvisandosi Gesù Cristo in un’attesissima Via Crucis che Arturo conquista il cuore della figlia del proprietario di alcune tra le più famose pasticcerie di Palermo e provincia – senza dubbio la donna della sua vita, considerando l’ossessione per la ricotta di cui sopra. Impresa ardua e non priva di episodi grotteschi al limite della blasfemia, ma che sembra concludersi con un meritato lieto fine.

Almeno fino a quando, subdolamente, Dio non torna a frapporsi tra i due amanti felici. Basta poco, una preghiera bofonchiata male, perché l’idillio lasci spazio alla crisi. Ed è proprio con l’iniziale intento di salvare la relazione dal pericolo celeste che Arturo, maschio con un lungo cv di mancate prese di posizione alle spalle, decide di intraprendere una sfida più grande di lui trasformandosi per tre settimane in un perfetto cristiano. Una provocazione, certo, ma che finisce con il trarre in mezzo non solo lavoro e amicizie, ma anche preti collusi, calamità naturali e terremotati, immigrati in cerca di una collocazione, pseudo politici e, non ultime, le proprie certezze.

Pif racconta la crisi del risveglio di una coscienza che prende atto dell’ipocrisia della società in cui vive, in cui la fede viene declinata in apparenze che nascondono tornaconti egoistici e in cui l’apertura al prossimo è ammessa solo nelle forme liturgiche.  Niente di nuovo, dunque, solo una verità di cui tutti siamo consapevoli da tempo, ma che Pif narratore riporta a galla in un momento storico in cui ribadire concetti teoricamente ovvi può solo far bene. E ancora una volta, se la sua forza non sta nell’originalità dei contenuti, la troviamo nella leggerezza di un umorismo a tratti grottesco che, tra un cannolo e una cassata, muto muto, arriva a smuovere qualcosa nei suoi lettori. Un po’ come una preghiera detta male tra i fedeli.

Rimane una nota dolente a guastare la lettura: “La discussione sul genere sessuale della palla di riso, fritta esternamente, è un punto fermo della nostra esistenza. All’inizio il tono è scherzoso. Dopo dieci minuti si può arrivare alle mani”. Peccato infatti che l’arancinO sia maschio.

 

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