Torna in libreria Paolo Di Paolo con “Lontano dagli occhi”, un romanzo che intreccia le vite di tre donne che abitano nella stessa città – Roma, all’inizio degli anni ottanta – e che sono accomunate dallo stesso destino: smettere di essere soltanto figli e diventare genitori – Su ilLibraio.it un estratto

Torna in libreria Paolo Di Paolo, prolifico autore di romanzi, racconti, saggi e libri per bambini, con Lontano dagli occhi (Feltrinelli), un romanzo che intreccia le vite di tre donne che abitano nella stessa città – Roma, all’inizio degli anni ’80 – e che sono accomunate dallo stesso destino: smettere di essere soltanto figli e diventare genitori.

Dopo Mandami tanta vita (Feltrinelli) con cui è arrivato in finale al Premio Strega 2013, Tempo senza scelte (Einaudi) e Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli), lo scrittore, che collabora con La RepubblicaL’Espresso e come autore di programmi culturali, scrive una storia che è una dichiarazione d’amore al potere della letteratura, alla sua capacità di avvicinare verità altrimenti inaccessibili.

Di Paolo_Lontano dagli occhi

Ma veniamo alla trama.

Luciana lavora in un giornale che sta per chiudere. Corre, è sempre in ritardo, l’uomo che ama è lontano, lei lo chiama l’Irlandese per via dei capelli rossi. Valentina ha diciassette anni, va alle superiori ed è convinta che da grande farà la psicologa. Appena si è accorta di essere incinta, ha smesso di parlare con Ermes, il ragazzo con cui è stata per qualche mese e che adesso fa l’indifferente, ma forse è solo una maschera. Cecilia vive fra una casa occupata e la strada, porta un caschetto rosa e tiene al guinzaglio un cane. Una sera torna da Gaetano, alla tavola calda in cui lavora: non vuole nulla da lui, se non un ultimo favore. A osservarli c’è lo sguardo partecipe di un io che li segue nel tempo cruciale della trasformazione.

Un giro di pochi mesi, una primavera che diventa estate. Tra bandiere che sventolano festose, manifesti elettorali che sbiadiscono al sole e volantini che parlano di una ragazza scomparsa, le speranze italiane somigliano a inganni. Poi ecco che una nuova vita arriva e qualcosa si svela… 

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto:

Storia di Giobbe

È andata così.

Se n’è accorta perché se n’è accorto lui. Si è avvicinato, ha mugolato, ha abbaiato due o tre volte, seccamente. Il tempo di chiedersi che cosa non andasse, e ha capito che la cosa riguardava lei. Ha abbassato gli occhi, ha visto un rivolo di sangue chiaro, come annacquato, che le colava lungo la gamba destra.

“Buono,” ha detto a Giobbe, l’ha accarezzato sulla testa, si è guardata intorno, atterrita. Ora che faccio, ora dove vado. Nei pochi metri che ha percorso verso un bar, ha avvertito chiaramente che aveva una perdita, e che il sangue non si sta-va fermando. Si è sentita debole, quasi di colpo. Ha pensato: aiutami, o forse l’ha detto. Anche se non c’era nessuno, c’era solo Giobbe.

La signora alla cassa del bar l’ha squadrata già prima che entrasse, come si guarda una ragazza vestita in modo strano, con un cane al seguito. Lei l’ha legato fuori, sulla porta ha detto a voce bassa, tenendosi la pancia: “Non mi sento bene”. La signora del bar dev’essersi allarmata, perché si è alzata di scatto dallo sgabello, e ha quasi urlato: “Chiamo un’ambulanza?”.

Cecilia ha scosso la testa: “No, no,” ha detto, “avrei solo bisogno del bagno”.

Vedere le sue mutande macchiate di sangue, zuppe, le ha dato un capogiro. Si è tenuta al lavandino. Si è asciugata, ha strappato via un metro di carta igienica. Sciacquandosi la faccia, ha messo alla prova le sue gambe, ha verificato che reggessero. Ha tirato l’acqua, è uscita dal bagno, e vederla dev’essere stato un sollievo per la signora della cassa, che ha accennato un sorriso, a mezza bocca.

“Sei molto pallida,” le ha detto, “siediti.”

Le ha portato un bicchiere di acqua e zucchero, le ha chiesto se volesse mangiare, le ha messo comunque sul tavolo una brioche, ha insistito di nuovo sull’ambulanza. Tornando in strada, mentre scioglieva Giobbe, Cecilia ha deciso di passare al consultorio, le è sembrata questione di vita o di morte. Poi, camminando all’ombra con il cane accanto, si è sentita meglio, ci ha ripensato, ed è stata per mezz’ora a combattere con sé stessa.

D’accordo, vado, si è detta, come se rispondesse alla sua coscienza, o ancora a Giobbe, che con le narici sempre incollate all’asfalto ha setacciato gli odori di mezzo quartiere.

Quando gli si siede accanto, quando capita che si accuccino entrambi nello stesso angolo di strada, lei sente di guardare il mondo come lo guarda lui, un’altezza diversa da quel-la adulta, da più in basso che un bambino. Il mondo è fatto soprattutto di piedi, di cespugli che crescono e resistono ai margini, nelle screpolature del bitume. È fatto di scarto, di sporcizia, di ciò che un muso di cane scruta e annusa, mozziconi di sigaretta, una lattina, una vecchia forchetta. Oggetti e brandelli di oggetti che si ammassano negli interstizi, intorno ai pali della luce, alle ruote dei motorini parcheggiati. Foglie, pezzi di vetro. Una scatola di cartone sfasciata, con scritto PASTICCERIA CORNETTERIA SAN LORENZO, bottiglie di birra e vecchie coperte che, d’inverno, potrebbero tornare buone. Nelle pozzanghere galleggiano fogli di giornale, volantini che dicono PROSSIMA APERTURA.

Giobbe insegue le piume e i piccioni che le hanno perse, fa rotolare bottiglie di birra vuote e lattine, inciampa in un ramo secco e vuole portarlo con sé. No, Giobbe, no, dai, molla. È piuttosto vecchio, ma ancora tira il guinzaglio, accelera inseguendo un frammento di foglia secca che dev’essergli parso un insetto.

E così avanzano, Cecilia e il suo cane, complici, capaci di parlarsi come fra simili, o più spudoratamente. Lei vuole fargli capire che non è preoccupata quando lui si ferma e cerca i suoi occhi. D’altra parte, non saprebbe dire chi ha protetto chi, in questi anni passati insieme. Lei l’ha accudito, nutrito, ha accettato i rimproveri di chi le si avvicinava offrendo cibo per quella povera bestia, è morta di paura quando l’ha visto ferito a una zampa, trascinarla come un peso morto e quasi perdere l’equilibrio. Lui ha abbaiato, spaventando chi doveva, l’ha scaldata, e confortata, senza parole – come fanno solo i cani, che amano anche chi non lo merita. Non può contare le notti in cui ha affondato il viso nel pelo di lui, cogliendone il respiro con la guancia, come una specie di miracolo.

Non ha intenzione di lasciarlo legato fuori dal consulto-rio. Non sa quanto tempo starà dentro. Allora, come mille altre volte, si guarda intorno, scruta i passanti, in cerca di quello a cui affidare Giobbe. Chi ama i cani, non è difficile distinguerlo. Lo riconosci. È chi si avvicina per accarezzare, chi dice che bello e chiede il nome, chi sorride con tenerezza. Ora basterebbe un pensionato davanti a un bar, o un paio di amiche che chiacchierano su una panchina. La prima persona a cui lo chiede dice: “No, mi scusi, devo andare”. La seconda ci pensa più a lungo, poi sorride e si allontana, senza dire niente.

La terza è un uomo anziano, è quello che cercava, non saprebbe dargli un’età, ma dev’essere vicino agli ottanta. È cavalleresco, fa il galante, ma in quel modo che non offende.

“Nun me movo da qua,” dice, e le strizza l’occhio. Cecilia lo guarda seria, stringe così il suo patto muto. I pensieri li divide fra due preoccupazioni, e quando si siede nella sala d’at-tesa è tentata più volte di uscire per controllare. Per fortuna il medico la chiama presto, non le dà nemmeno il tempo di raccontare, la fa stendere subito sul lettino, e lei prova il disagio di sempre. Il problema non è il naso del ginecologo a qualche centimetro dalla sua vagina, sarebbe lo stesso con uno che le tenesse l’orecchio o lo stetoscopio sulla schiena, con uno che le palpasse i seni, o le tenesse ferma la lingua con una stecca. Finisce per temere il peggio, e stavolta non va lontana dal vero, perché il dottore si schiarisce la voce due volte e due volte ripete: “Non va bene”.

“Cosa?” chiede lei, come se non lo intuisse.

“Lei ha bisogno di riposo, signorina,” risponde lui. Che cosa sa, lui, della mia vita, pensa Cecilia. “Così mettiamo a rischio il bambino,” prosegue il medico. “E la mamma.”

Mettiamo chi?, si domanda Cecilia, con stizza. Lui intanto snocciola le sue raccomandazioni, carezzando il blocco delle ricette con la mano destra. Cecilia si è già distratta.

Non vede né il vecchio né Giobbe, però non si allarma. L’avrà portato a spasso. Dopo un po’ si rende conto di essersi fermata al sole, si sposta in un cerchio d’ombra e comincia a essere impaziente. Domanda a caso se qualcuno ha visto un signore – anziano, una camicia a maniche corte, a quadri verdi, con un cane – tipo pastore tedesco, scuro, un’orecchia un po’ piegata. Niente.

Quando vede venirle incontro il vecchio signore con la camicia a quadri, capisce. Non ha bisogno che lui parli, e quello nemmeno ci riesce – in affanno, rosso in volto, sudato. Si china in avanti, tenendo le mani puntate sulle ginocchia.

“Se ne stava qui, a cuccia, buono, vicino a me. È scattato su all’improvviso, non so che cos’ha visto, si è messo a correre, gli sono andato subito dietro, l’ho chiamato anche se non mi avevi detto il nome, ci ho pensato lì per lì che non me l’avevi detto, ho continuato a correre, ho chiesto aiuto, lui ha girato a un angolo…” dice, con il fiato corto, e un tono sconsolato che le fa rabbia e pena insieme. “Ha girato a un angolo,” riprende il vecchio, “e l’ho perso di vista. Ho continuato a cercarlo fino a ora, niente, sparito. Sparito.” La voce gli si incrina, come sul punto di piangere.

E piange anche Cecilia, e mentre piange si domanda se l’uomo che ha davanti è sincero, se la sta prendendo in giro, ma sarebbe assurdo che piangesse per finta. Lui continua a chiedere scusa, lei non sa cosa rispondere.

“Adesso vado,” dice, “vado a cercarlo.” Non poter corre-re le pesa come mai le è pesato. Prova ad allungare il passo, poi rallenta di nuovo. Lo cerca, lo chiama. “Giobbeeee, Giobbeeee.”

È sicura di trovarlo. Deve, trovarlo. Fino a che non scende il buio, batte il quartiere palmo a palmo. È esausta, e di-sperata. Il pianto che la scuote ha dentro un’infelicità veleno-sa, che incupisce ogni cosa intorno.

Si chiede se sia il caso di aspettarlo dove si è perso, o altrove, nei luoghi che gli sono familiari, dove potrebbe torna-re. Al mondo aveva solo lui, pensa, e sente già una mancanza feroce. Una volta si era detta che sarebbe stato bello che la prima persona – aveva pensato così: persona – al mondo da far conoscere al bambino fosse Giobbe.

Spera ancora di vederlo tornare, e piange: come se avesse perso non un figlio, ma un padre.

(continua in libreria…)

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