“I morti non muoiono”, il cupo e (auto)ironico film di Jim Jarmusch, rivisita in chiave autoriale (ma stanca) il genere zombie, con un nutrito e cannibale cast indie, stellare e complice. Per il regista di “Coffee and Cigarettes” e “Paterson” si tratta però di una battuta d’arresto – La recensione

C’è qualcosa di ridondante, stantio e non così vivo, per questo irrimediabilmente mimetico del suo oggetto, in quest’ultimo divertissement cupo e (auto)ironico di Jim Jarmusch. I morti non muoiono, che ha inaugurato pieno di promesse un’edizione ricca di attesi ritorni del festival di Cannes (chi non muore si rivede), rivisita in chiave autoriale e stanca il genere zombie, con un nutrito e cannibale cast indie, stellare e complice (sul red carpet la famiglia stranger than paradise e in permanent vacation che anima il cinema notturno, rock e fantasmatico, pieno di figure revenants, di Jarmusch).

Strizzatine d’occhio metacinematografiche e citazioniste in sovrabbondanza provano a rimettere in piedi, con diverse defiances e strabuzzamenti oculari, un corpus registico e un canone di genere, quasi adottando una modalità frankensteiniana, giocosa e triste insieme (post mortem e postmoderna): cucire insieme volti e topos noti, situazioni e soluzioni premasticate, metafore e ricette già viste, nella consapevolezza, sarcastica e disillusa – tutto sommato distaccata e un po’ acefala – che tutto (oggi, al cinema) è stato già girato e che tutto (oggi, in America e oltre) finirà male. L’apocalisse è qui e ora.

Seppur riconoscibilissimo, nei modi (ironici e laconici) e nei tempi (lunghi, letteralmente morti), il cinema di Jarmusch trova in questo Dead don’t die (tema tormentone country della pellicola, come notano annoiati i personaggi stessi) forse qualche battuta felice ma soprattutto una battuta d’arresto, come inceppato nella narrazione infernale di un mondo che, spostato l’asse attorno a cui ruota, non conosce più l’alternanza del giorno e della notte, ed è, in questo squilibrio che per metafora sembra realizzare i peggiori incubi di una Greta Thunberg, invaso da famelici cadaveri rigurgitati da Madre Terra, guidati da banali e superflui bisogni indotti e addictive (dal caffè al wifi), spietati e scoordinati istinti antropofagi e movenze predatorie al rallentatore. Tutto come da copione.

La Centerville del film, concentrato dell’immaginario periferico americano (un “nice place” di 738 anime che pare fuoriuscito da una canzone di Frank Zappa e un classico di David Lynch) è il regno del white trash e del cliché provinciale: dal farmer razzista e armato (Steve Buscemi) al nerd cinefilo (maglietta del Nosferatu di Murnau in bella vista), dai poliziotti rassegnati e impotenti (Bill Murray veterano, Adam Driver alla guida, e Chloë Sevigny spalla) agli hipster di passaggio (con una Selena Gomez perfetto pesce fuor d’acqua).

Nell’attesa, cameriere a servizio, fra coffee and cigarettes, nel proverbiale diner da incubo fronteggiano in prima linea il loro destino routinario. L’eterno ritorno dei morti viventi, con evocazioni esplicite di Romero e Carpenter, vede un Iggy Pop sbucare per primo dalla tomba di Sam Fuller, in un gioco di putrefatto omaggio che ci immette in un un corridoio della paura shock e sciocco.

Contro l’orda di cadaveri scombinati, non basta la forza espressiva del volto del cinema indipendente Adam Driver (prestato al mainstream della saga di Star Wars come si diverte a ricordare il regista) a salvare il mondo. E in questo paesaggio cimiteriale smorto si staglia (e non a caso si salva) la becchina (che di cadaveri se ne intende fino all’ultimo Suspiria) scozzese (dunque europea) Tilda Swinton, corpo alieno armato di katana, particolarmente a suo agio nel mozzare la testa agli zombie di turno (“uccidere la testa”, ribadito con insistenza, è l’unico modo di neutralizzare i non morti).

A osservare la scena terminale, un Tom Waits eremita sociopatico e dispettoso, che è fuggito nei boschi, ennesimo volto noto e drop out esemplare del cinema di Jarmusch, che non perde occasione per uno sguardo pigramente moralista su un universo in disfacimento. Ma è lo sguardo stesso dell’autore a sfaldarsi almeno un po’ in questo caso.

Dopo la parabola annoiata eppur riuscita sulla sterilità (poetica, prolifica e profetica) della provincia di Paterson e la geniale decadenza vampiresca urbana di Solo gli amanti sopravvivono, qui l’universo perdente e battagliero del ghost dog del cinema marginale americano rimane chiuso in se stesso, mostra stanchezza e senescenza, e i rari momenti di intuizione non bastano a riportare in vita un film che appare lo spettro di se stesso, e della sua maniera.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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