“Non avevo mai considerato quanto fosse anticonvenzionale e preziosa ‘La signora in giallo’, fino a quando…”. La scrittrice Ilaria Gaspari ricorda Angela Lansbury, attrice molto amata, morta a 96 anni. E si sofferma sulla “piccola rivoluzione femminista sotto copertura” che ha compiuto con i suoi personaggi (“Jessica Fletcher è, insieme Jane Marple e Agatha Christie, la detective la scrittrice, la creatrice e la sua creatura. E una scrittrice prolifica…”): “Come le nostre nonne, Jessica Fletcher è capace di un’infinita pazienza e ostinazione, di osservare i dettagli minuscoli che sfuggono agli occhi di tutti…”

In genere provo un’avversione nemmeno troppo tenue per i necrologi dei personaggi famosi sui social, così come per tutte le manifestazioni di conformismo agonistico e insincero che, su Facebook in particolare, si sviluppano secondo un copione sempre identico: ci sono gli elogi, con foto e/o ricordo personale, c’è la lamentazione funebre dei nostalgici secondo i quali “niente sarà più come prima”, poi l’immancabile frecciatina polemica del bastian contrario che puntualizza presunti difetti del defunto o della defunta, e spesso dà corda a piccoli complottismi che addensano ombre e brume attorno alla recente dipartita. Segue la levata di scudi dei devoti, che se la prendono con i bastian contrari, i quali allora alzano i toni; ci si esaspera a vicenda per un po’, poi, trascorse le classiche 48 ore dalla notizia del trapasso, tutto è bell’e dimenticato, e si è pronti a ricominciare alla prossima morte celebre – nel frattempo magari ci si mantiene in forma con qualche polemica giornaliera, di quelle che ti fanno rompere con due o tre amici, sul momento, prima di dissolversi nell’etere.

Ma qualche giorno fa, quando nel giro di poche ore si è diffusa la notizia della morte di Angela Lansbury che stava per compiere 97 anni, ho avuto una sensazione molto diversa. Per una volta non mi è parso di veder prevalere esibizionismi e fazioni, per una volta i toni mi sono parsi meno artificiosamente queruli. Forse è stata solo una questione di prospettiva; una volta tanto, ero triste anch’io – in un modo dolce però, di una nostalgia sottile, quasi spiritosa – per le stesse ragioni per cui mi parevano tristi gli altri.

Non propriamente per la morte di Angela Lansbury, per cui naturalmente ci dispiacciamo, ma ricordandoci che si è spenta in un’età in cui forse si sente davvero un po’ di stanchezza della vita, e che ha avuto una vita certamente piena – anche se non sappiamo quanto difficile, perché non possiamo mai calcolare la durezza delle esistenze, che pur ci pare di conoscere, delle celebrità –; e che solo pochi mesi fa era stata immortalata durante un pranzo al sole della California, con un sorrisone da un orecchio all’altro. Nemmeno, credo, per il fatto che la sua morte, seguendo a breve distanza quella della regina Elisabetta, e segnando così il tramonto di due vite che erano in corso da ben prima che nascessimo, da ben prima che nascessero i nostri genitori, ci ricordano che siamo mortali; a ricordarcelo, con molta più efficacia, possono provvedere traumi molto più convincenti della morte delle due iconiche vecchiette.

Il fatto è che siamo stati tutti tristi, quando è morta Angela Lansbury, perché abbiamo pensato a lei nei panni – ovvero: camicette, gilet, blazer, mantelline per la pioggia, qualche volta stivali per far giardinaggio – della detective Jessica Beatrice Fletcher, dentro la tv nelle case delle nostre nonne. Abbiamo pensato alle nostre nonne che all’ora di pranzo non sentivano ragioni e dovevano assolutamente seguire i casi dell’indomita investigatrice che faceva fare ai poliziotti la figura degli stupidi, che difendeva gli innocenti accusati ingiustamente. Abbiamo vissuto un’intermittenza del cuore collettiva, nel momento in cui ci siamo resi conto – noi che siamo stati bambini nella serenità protetta degli anni Novanta, che siamo cresciuti fra crisi e recessioni e, forse per questo, ancora facciamo fatica a staccarci dal ricordo intenerito della nostra infanzia – che non siamo più bambine e bambini nella cucina delle nonne. E che le nostre nonne, come Angela Lansbury da martedì scorso, non ci sono più, o comunque non sono più le stesse di allora.

Non è vero, come qualcuno dei polemisti ha tentato di insinuare, che c’è bisogno di indignarsi per il fatto che l’apprendista strega di Pomi d’ottone e manici di scopa e la Jessica Fletcher delle dodici stagioni de La signora in giallo sembrano essere tutto quel che resta di una carriera straordinaria, cominciata con un film indimenticabile come Angoscia di Cukor, in cui Angela Lansbury poco più che adolescente interpreta una cameriera frivola e crudele; non è vero, perché la detective eccezionale, così come l’aspirante strega pasticciona, non cancellano certo la camerierina insensibile, né la sfavillante zia Mame che da Broadway le fece conquistare l’affetto imperituro della comunità gay. Il punto è un altro: è che, come simbolo nonnesco di emancipazione, Jessica Fletcher è stata un’icona imbattibile.

Non solo è una detective dal fiuto intemerato, non solo risolve casi a raffica, in barba all’inettitudine dei poliziotti; non solo vive da sola e si veste, chiaramente, non per la vita che vive ma per la vita che vuol vivere, e che finisce per diventare la sua. Non solo porta gli occhiali quando legge e scrive, ma vede qualsiasi cosa. Non solo è infallibile; ma ogni volta che risolve un caso si concede una risata chioccia da vecchia signora. E vive con un gusto, con un piacere, persino con un autocompiacimento, che lascia senza parole tutti quelli che incrociano il suo cammino.

È una donna di una certa età, come si dice con velenosa galanteria; una signora âgée, eppure piena di energia, di pazienza, di piccole abilità insospettabili. Come le nostre nonne, che seguivano le sue avventure concedendosi uno spiffero di morbosa curiosità per i casi delittuosi, mentre preparavano il pranzo per noi nipoti, forse in qualche caso anche per i nonni di là – se non erano vedove, come placidamente vedova è Jessica Fletcher: la quale ha amato il suo defunto Frank, è stata presumibilmente una buona moglie, probabilmente gli ha preparato la cena e stirato le camicie; ma questo passato coniugale, nell’eterno, dilatato presente del telefilm, non le impedisce di godere dei vantaggi della zitellagine, di una solitudine autogestita, di abitudini di cui non deve rispondere proprio a nessuno. Proprio come molte nostre nonne, che conservavano, insieme, il dolore per i mariti perduti e una forma di indipendenza conquistata nella solitudine quotidiana, con una punta di dolcezza nella routine indisturbata, e una di amarezza nel silenzio che proprio la televisione, spesso, rompeva. Non avevo mai pensato a quanto potesse essere forte, per loro, questo potere di immedesimazione; né alla genialità di inventare il felice riscatto di un’anziana signora offrendo così a molte signore anziane, con l’impressione di non contare più un granché, forse addirittura di non aver mai contato, una finestra di libertà nel bel mezzo della giornata.

Una piccola rivoluzione femminista sotto copertura: liberatoria ma gentile, beneducata, rassicurante, e soprattutto rivolta a una generazione che i reggiseni in piazza non li aveva bruciati, quella delle coetanee di Angela Lansbury, settantenni come lei negli anni Novanta, sessantenni negli Ottanta in cui debuttò la serie. Lei stessa raccontò che l’idea del telefilm – di cui, per evitare ingerenze, con un altro slancio innovativo e indipendentista, era diventata produttrice esecutiva – l’aveva caldeggiata perché al cinema, alle soglie dei suoi sessant’anni le offrivano solo personaggi insignificanti, dimenticabili: una conseguenza della miopia di Hollywood, che non solo ha cercato in tutti i modi di cancellare le tracce del naturale processo di invecchiamento delle donne, ma ha fatto pure l’errore di sottovalutare le vecchiette.

E così, la celebre detective zitella con cui già un’altra grande anticonformista della narrativa, Agatha Christie, si era presa gioco di un mondo in cui le vecchie signore sono considerate alla stregua di vecchie inutili ciabatte, Miss Marple, approda agli anni Ottanta e si trasforma, si riaggiorna: diventa una professoressa di inglese che per distrarsi dalla morte del marito, toh, riesce a scrivere un best-seller dal successo planetario. Murder, she wrote, il titolo originale del telefilm, cita esplicitamente un romanzo di Miss Marple, perché Jessica Fletcher è, insieme Jane Marple e Agatha Christie, la detective la scrittrice, la creatrice e la sua creatura. E una scrittrice prolifica: al primo grande successo ne segue un altro, e un altro ancora; tanto che anche nella realtà vengono pubblicati (in Italia da Sperling&Kupfer) dei gialli che portano la sua firma.

Non avevo mai considerato quanto fosse anticonvenzionale e preziosa La signora in giallo, fino a quando non ho letto i tanti necrologi di Lansbury che erano necrologi per la signora Fletcher nella cucina di un esercito di nonne che si divertivano da matti con quelle storie di delitti in un paesino ingannevolmente pacifico e pieno di sole, di casette di legno bianco e cieli blu, Cabot Cove, nel Maine che le nonne non avevano forse idea di dove o cosa fosse – anche se noi nipoti con facile accesso a Google sappiamo che non esiste nessun Cabot Cove, e che le puntate erano girate in California. Ma che importa?, non cambia la magia dei luoghi immaginari, in cui ci si rifugia col pensiero, dimenticando tutto, la cucina, la tovaglia da apparecchiare, gli orari che scandiscono le giornate delle persone anziane.

Come le nostre nonne, Jessica Fletcher è capace di un’infinita pazienza e ostinazione, di osservare i dettagli minuscoli che sfuggono agli occhi di tutti. Di imparare a usare un pc, nel corso della storica puntata in cui abbandona la sua gloriosa macchina da scrivere; di abbinare le scarpe alla borsa, di risolvere situazioni intricate con la messimpiega che non si scompiglia, gli inamovibili orecchini di bigiotteria a clip, il foulard al collo e i mezzi tacchi ai piedi. Senza scomporsi, dà del filo da torcere ai peggiori criminali, riottosa e impertinente, sarcastica e ridanciana come le nostre nonne forse non si sono mai permesse di essere; ma grazie a lei, hanno sognato di provarci.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne.
Scrive per diverse testate, e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioniNel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.  Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.

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