“Ho cominciato a scrivere la storia dei miei genitori per dare un volto preciso ai migranti. E per ricostruire un’identità”. Dopo “Il libro delle mie vite”, lo scrittore americano di origine bosniaca Aleksandar Hemon torna al memoir, in forma doppia (“I miei genitori / Tutto questo non ti appartiene”), ispirato dalle crisi internazionali. ilLibraio.it lo ha incontrato: “L’attuale guerra in Ucraina mi ricorda molto quanto è successo in Bosnia negli anni ’90…” – L’intervista

Tutte le famiglie (felici e infelici) temono la catastrofe, ogni famiglia migrante sa come rinascere da essa.

Al contrario delle tragedie greche, la catastrofe nella storia di Aleksandar Hemon, e nella cultura bosniaca, è uno spettro costante: quando però alla fine arriva, è un fulmine inatteso, un elemento che annulla tutto e obbliga a ripartire da capo. Lo scrittore, nato a Sarajevo nel 1964 e trasferitosi nel 1992 a Chicago, pochi giorni prima che la città venisse occupata dai serbi, lo racconta nel doppio memoir I miei genitori / Tutto questo non ti appartiene (Crocetti Editore, traduzione di Gianni Pannofino).

La storia di Hemon è nota da anni ai lettori, anche a quelli italiani, grazie a Il libro delle mie vite, pubblicato nel 2013 da Einaudi: un compendio di storie brevi, autoconclusive, che mettono insieme i frammenti biografici di quelle che sembrerebbero tante vite in una sola, come suggerisce appunto il titolo.

Hemon torna ora all’autofiction dopo un romanzo (L’arte della guerra zombi, Einaudi) e la sceneggiatura della serie Sense8 e del film Matrix 4 Resurrections, scritte insieme a Lana Wachowski e David Mitchell. 

Aleksandar Hemon I miei genitori

“Ho iniziato la scrittura di questo libro nel 2014, all’inizio della crisi migratoria che stava colpendo l’Europa. Volevo ribaltare la rappresentazione di quelle masse di persone senza volto e senza identità che vedevo sui media. Perciò ho cominciato a scrivere la storia dei miei genitori”. Lo ha raccontato l’autore, ospite al Festivaletteratura di Mantova, in conversazione con la scrittrice Federica Manzon, e lo ripete ancora una volta a Milano, intervistato da ilLibraio.it.

Mettendosi a sua volta a sedere davanti ai suoi genitori e intervistandoli, lo scrittore ha ricucito la tela dei ricordi personali e degli aneddoti di una famiglia migrante, in luoghi dell’Europa che hanno cambiato nome e identità: nei primi del Novecento gli Hemon, originari della Galizia – prima che la regione diventasse formalmente Ucraina con la dissoluzione dell’URSS – si trasferirono in Bosnia, a Prnjavor.

Con la costituzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha anche inizio la storia dei protagonisti: padre Hemon e la consorte, originaria della Serbia, si sposarono a Belgrado, una delle città più importanti, nel pieno del fiorire economico e sociale del Paese governato dal presidente Josip Broz Tito.

Un Paese ricordato inevitabilmente con nostalgia da entrambi i genitori: non solo perché rappresentala terra della gioventù e delle possibilità, ma anche perché costretti a lasciarla con lo scoppio della guerra in Bosnia nel 1992: “La percezione di Tito dei miei genitori, così come nel resto della Bosnia-Erzegovina, non è così negativa come potremmo pensare”, commenta Hemon. “Di quel tempo veniva valorizzata l’esistenza di una nazione non fondata necessariamente su un’unica etnia, dove i popoli si potevano mescolare in maniera pacifica e riconoscersi in un’unica identità”.

Non esiste patria perfetta come quella dei ricordi, in fondo: “Una patria non può costruirsi senza nostalgia, senza fondare a posteriori una passata utopia”, così scrive nel libro. 

Hemon, ricostruendo l’epica di una famiglia migrante, specifica e reale, cerca di ricostruire un senso identità, che non può più essere circoscritta in un concetto di nazione, ma in un’umanità più vasta e ampia. La lingua costituisce senz’altro un veicolo per la trasmissione del senso di identità, ma anche per la sua interruzione: come i genitori sono stati costretti a studiare una nuova lingua (l’inglese) a 50 anni, spesso con grosse difficoltà, così anche per l’autore assumere l’inglese come una nuova lingua – per giunta letteraria – implica una creazione di un nuovo assetto: “Durante i miei primi anni negli Stati Uniti insegnavo inglese, soprattutto a migranti di origine slava. Avevo un ingegnere spaziale come studente, che, non riuscendo a imparare l’inglese, si trovava costretto a lavori molto meno qualificati”.

I ricordi condivisi e la comunità, aggiunge, sono in definitiva il senso di identità e individualità che ci costruiscono, nient’altro. Il cibo, gli oggetti, ma soprattutto la musica costituiscono un ulteriore collante culturale. Da qui la fretta di costruire un “monumento” pubblico ai genitori, come gli è stato fatto notare dalla madre dopo la prima lettura del libro.

Della seconda metà del libro, intitolata Tutto questo non ti appartiene, invece, vengono sollevati pochi commenti: è una parte molto intima, personale, in cui i ricordi di infanzia e gioventù vengono affastellati uno dopo l’altro.

La forma del frammento viene spesso adottata anche da altri autori della diaspora jugoslava nello scrivere i ricordi, come fatto da Semezdin Mehmedinović o Faruk Šehić, per comunicare la frattura traumatica della guerra e del dislocamento: “L’attuale guerra in Ucraina mi ricorda molto quanto è successo in Bosnia negli anni ’90”, dichiara Hemon, comunicando profonda amarezza: “La Russia ha pianificato l’occupazione ucraina sotto lo sguardo indifferente della comunità internazionale, proprio come aveva fatto la Serbia in Bosnia”.

Uscirà a gennaio 2023, negli Stati Uniti, il prossimo libro dell’autore, The World and all that it holds, stavolta un romanzo: “Un libro che ho iniziato a scrivere nel 2010 e che sono riuscito a pubblicare solo ora”. La cosa più difficile dello scrivere fiction? “Lasciare andare i personaggi. Mentre li scrivo mi ci affeziono, li vedo diventare qualcosa di diverso da me. E mi mancano proprio come degli amici”.

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