“Oggi viviamo in un’epoca in cui ci sembra di dover avere tutto pronto prima di iniziare a fare qualcosa: a Leopardi è bastato vedere una primavera; e a noi può bastare una primavera per capire perlomeno che cosa stiamo a fare al mondo”. In un’appassionata intervista a ilLibraio.it, Alessandro D’Avenia, scrittore e insegnante molto amato dagli adolescenti, racconta il suo nuovo libro, “L’arte di essere fragili”, dedicato al grande poeta di Recenatati, e il progetto teatrale a cui è associato. Tra le altre cose parla dei problemi della scuola, dell’impatto e dei rischi legati ai social, dell’importanza della lettura ad alta voce e dei suoi prossimi libri

«Non avevo intenzione di scrivere un libro su Leopardi, ma poi vedevo gli occhi dei miei studenti rapiti dai suoi versi… Noi presentiamo loro Leopardi come il poeta del pessimismo e loro lo sentono come il poeta cercatore della felicità. Allora mi sono detto: qui sto sbagliando qualcosa…». L’arte di essere fragili, il nuovo libro di Alessandro D’Avenia edito da Mondadori, è appena uscito in libreria e presto viaggerà per l’Italia, al centro di un racconto teatrale. Il grande poeta recanatese è il destinatario delle lettere di D’Avenia-professore, ma anche del D’Avenia-uomo che ricorda lo stupore di quanto, da ragazzo, Giacomo Leopardi gli ha aperto gli occhi e lo ha portato ad abbracciare coraggiosamente la terra dei “forse”.

l'arte di essere fragile

D’Avenia, esordiamo con una citazione: “Solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini”: vuole spiegarci questa sua affermazione?
“Natalia Ginzburg diceva che solo chi ha vocazione provoca vocazione: non stava parlando di qualcosa di mistico o di straordinario, ma del semplice fatto che le persone che riescono nella vita a tenere in piedi l’ordinario facendosi guidare dall’ispirazione sono persone che ci interpellano, come fa la bellezza. Esattamente come la bellezza, che non è un fatto meramente estetico, ma la manifestazione di un compimento. Quando troviamo questo compimento nell’arte, nella natura, nelle persone, veniamo subito messi alla prova, perché queste epifanie ci richiedono: e tu? A che punto sei del tuo divenire? Per darsi una risposta a questa domanda, Leopardi si fece bastare una primavera”.

Cosa avvenne?
“Nel 1817 Leopardi non era che un diciannovenne ancora sconosciuto, in un paesino ai confini dello Stato Pontificio, eppure si prese la briga di scrivere a uno degli intellettuali più famosi dell’epoca, Pietro Giordani. Gli confessò che aveva visto la primavera, doveva prendersi cura di tanta bellezza e diventare poeta. Giordani gli rispose – e questo è un bell’insegnamento per questo nostro tempo! –, riconoscendo il suo talento ma gli raccomandò di scrivere vent’anni di prosa per poi misurarsi con la poesia. Leopardi non si lasciò incantare (fortunatamente!): due anni dopo infatti avrebbe donato al mondo l’Infinito: pensate a cosa avremmo perso, se il Giacomo diciannovenne avesse dato ascolto a Giordani! E, ironia della sorte, oggi continuiamo a parlare di Leopardi, mentre Giordani è ricordato molto meno, e quasi sempre in funzione di Leopardi stesso. Anche noi, oggi, dobbiamo stare accanto questi ragazzi, non farli sentire soli quando ci dicono di aver visto la primavera, ma aiutarli a prendersi cura della bellezza che hanno attorno. Oggi viviamo in un’epoca in cui ci sembra di dover avere tutto pronto prima di iniziare a fare qualcosa: a Leopardi è bastato vedere una primavera; e a noi può bastare una primavera per capire perlomeno che cosa stiamo a fare al mondo.

Giacomo Leopardi

Allora questo pensiero si coniuga bene con un’altra sua affermazione: “La letteratura serve a fare interrogativi, non interrogazioni”: e a scuola come fa?
“Sia chiaro, non può esistere una scuola senza verificare il lavoro fatto; compiti, lezioni e valutazioni fanno parte del processo educativo; ma c’è uno stile di insegnamento essenziale che possiamo recuperare, senza contraddirci. O l’arte e la letteratura ci aiutano a vivere meglio la vita di tutti i giorni, o francamente ne possiamo fare a meno: le grandi opere non devono essere il banco di prova con verifiche nozionistiche. In tal senso, che mi trovi allo scientifico o al classico, il primo anno di superiori, faccio leggere integralmente l’Odissea: cosa me ne faccio di un ragazzo che, dopo cinque anni di liceo, sa benissimo che ci sono 24 libri nell’Odissea, ma quei 24 libri non li ha mai letti? È un paradosso. Allora prendiamoci un po’ di tempo, diminuiamo l’attenzione su cose che presto saranno dimenticate e concentriamoci su quello che può servire alla vita quotidiana”.

Molto spesso, nella scuola della vita, sono gli studenti stessi a interrogare i professori e gli adulti in generale, a caccia di risposte. Nel libro, scrive: “Mi sono convinto che gli adolescenti non hanno domande; sono domande”. Cosa fare, dunque? Meglio offrire risposte certe anche se non ne siamo pienamente convinti, pur di rassicurarli, o confermare la nostra umana incertezza?
“Dipende dal tipo di domanda: se sono questioni letterarie, mi impegno a rispondere; se sono interrogativi sulla vita, faccio mie le parole di Rilke in Lettere a un giovane poeta: al ragazzo che chiedeva se aveva la vocazione, Rilke rispondeva di non concentrarsi ancora sulle risposte (che sarebbero arrivate al momento opportuno), ma sulle domande. A volte la risposta è: ‘Non ho neanche io la risposta, ma teniamo questa domanda viva, perché la vita stessa ci porterà la risposta’.
L’adolescente cerca la risposta consolatoria, facile, ed è quello che a volte fa sfidandoci, ma, come ho imparato da Leopardi a cominciare da Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dobbiamo imparare ad abbracciare la terra dei forse. La poesia cresce nella contraddizione, ma non la ricopre, e questo è fondamentale: accettare di vivere la vita con le sue contraddizioni, e intanto cercare di darci una via e qualche punto fermo. Io a quarant’anni, posso dire di averne trovato qualcuno”.

Difficile, però, trovare i punti fermi in una realtà così mutevole e caotica come la nostra. Nel libro scrive: “La nostra bulimia di informazione […] ha diminuito la sapienza, cioè la capacità di andare in profondità, di cui la connessione continua è un seducente surrogato che ci costringe in un eterno presente” (pp. 62-63). Abbiamo bisogno di una barriera per far sì che la tecnologia non sia un fine, ma uno strumento?
“I ragazzi che hanno aperto la pagina Facebook quando erano alle medie saranno i primi a stancarsi, se i social non sono riempiti di messaggi e contenuti diventano alla lunga un meccanismo asfissiante. Certo, noi adulti ci poniamo delle domande, perché la nostra prospettiva appartiene ad altri tempi e abbiamo vissuto gli anni pre-internet. Ma d’altro lato, la rete può essere uno strumento potentissimo per arrivare a questi ragazzi: attraverso i social a volte riesco a comunicare cose ben al di fuori delle mura scolastiche. Ovviamente c’è di tutto su internet, ma se osserviamo da vicino, ci accorgiamo che i ragazzi vanno a cercare il senso di questo mare magnum. La navigazione, su internet come la navigazione esistenziale, ha bisogno di stelle o, come i marinai, non sai dove andare”.

E l’appuntamento nei teatri con L’arte di essere fragili può aiutare i ragazzi e gli spettatori a trovare la via? Che cosa dobbiamo aspettarci?
“Nel racconto teatrale che porterò nelle varie città (non amo chiamarlo spettacolo), raccolgo il desiderio di Leopardi di scrivere una lettera a un giovane del ventesimo secolo; lui non ha fatto in tempo, ma allora riprendo l’idea e provo a realizzarla così, rivolgendomi a giovani del ventunesimo secolo. Tra le varie suggestioni sul palco, ci sarà uno schermo gigante alle mie spalle; mentre io parlo, verranno cercate su Google alcune parole-chiave. Ad esempio, se cito Pietro Giordani, sullo schermo Google ci segnalerà il Pietro Giordani di Leopardi, ma anche il Pietro Giordani che abita vicino a casa mia. Mentre scorreranno tutte queste informazioni, io discuterò del senso che diamo a tutte queste ricerche e informazioni. C’è qualcuno che ha attraversato il tempo (Leopardi) e ha ancora qualcosa da dirci, e per questo sopravvive, e sullo schermo abbiamo invece questo mare magnum di informazioni che alla lunga diventeranno inutili, sono parte del flusso del tempo, ma non ci aiutano a capire il senso del tempo. Per questo, abbiamo bisogno dell’arte”.

Ha pensato a un pubblico ideale per gli incontri teatrali?
“Il racconto teatrale è gratuito: ci tenevo molto, perché volevo che il teatro fosse un po’ come la scuola, ovvero un posto in cui gratuitamente si dovrebbe ricevere il passato per vivere meglio il presente. Così il mio pubblico ideale, come la mia classe ideale, è composta da chi mi trovo davanti. E vivremo una specie di esperimento di scuola senza mura, con 1000 – 1500 persone a seconda della capienza dei teatri. L’altro giorno, quando abbiamo aperto le prenotazioni per il Teatro Carcano di Milano, i quasi 1000 posti sono stati prenotati in 12 minuti. Questo ci porta a farci due domande: c’è un professore che parla di Leopardi, come è possibile tutto questo? E: siamo sicuri che dobbiamo disperarci, perché nessuno legge? Forse dobbiamo capire come portare alle persone l’arte e la letteratura. A me piace la parola orale, e voglio immaginare che questi incontri saranno come all’inizio dei tempi, quando si è formata la grande culla dell’Occidente, attraverso i racconti orali, attorno a un fuoco e sotto un cielo stellato. Vorrei che almeno per un’ora e mezza la gente fosse contenta, con un po’ di speranza sul quotidiano. La letteratura ha a che fare con la speranza; uno scrittore non scriverebbe neanche una riga, se non sperasse!
E a proposito di quanto dicevamo prima, la più grande tecnologia resta la parola, per cui sfruttiamola!”.

A proposito del possibile legame tra tecnologia e parola scritta: osservare la grafia e i manoscritti di un poeta come Leopardi può aiutare i ragazzi a porsi domande?
“Certo. Introduco gli autori in classe mostrando un ritratto (o una fotografia, quando possibile) e gli autografi: è un modo per avvicinare i ragazzi all’umanità di queste persone, che hanno avuto un corpo, una mano, una grafia. In modo dilettantistico, mi sono studiato alcuni manuali di grafologia per saper leggere in maniera impressionistica i tratti fondamentali delle grafie… Per quanto empatico, è un modo curioso di entrare in modo più umano nella vita degli autori”.

Oltre a raccontare la straordinarietà di autori come Leopardi mostrando ritratti e autografi, pensa che sia utile tornare a leggere ad alta voce per invogliare i giovani alla lettura?
“Abbiamo bisogno di un’azione fortissima sull’educazione alla lettura: dobbiamo essere educati a leggere ad alta voce, ci vogliono progetti per le famiglie e gli insegnanti, introducendo almeno alle elementari ore di lettura, in cui la maestra ‘presta’ la voce a una storia. Infatti, anche noi professori siamo verificati solo sulle conoscenze; mai sulla nostra capacità di gestire un ambiente, cosa che facciamo con il corpo e con la voce. Sarebbe bellissimo invece che fosse parte della formazione l’educazione della voce, della recitazione. Per questo servono investimenti massicci: in Germania investono quasi 100 milioni di euro; Francia 70 milioni; in Italia, solo 400mila euro; il ministro attuale ha aumentato un po’ questi fondi, ma bisogna davvero rimboccarsi le maniche. La politica non pensa che la lettura sia il passaggio necessario per poi avere un grande Paese? Bisogna investire dei fondi sull’invisibile per vedere i risultati da quindici o vent’anni, ma chi lo fa, oggi?”.

Per concludere cercando felicità, come vorrebbe Leopardi: scriverà altri libri in dialogo con i classici come L’arte di essere fragili?
“Sì, ho tantissime idee. Nei prossimi anni vorrei alternare la scrittura narrativa a raccontare come la vita quotidiana può essere illuminata dalla letteratura. Mi sembra un tempo fecondissimo per farlo, perché, paradossalmente, in questa dispersione di informazioni la ricerca di senso diventa ancora più forte”.

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