Un piccolo scrigno di storie perturbanti e insolite, un’alchimia di stanze che non sono rassicuranti e boschi che diventano labirinti… Esce postuma la raccolta “Morte nel bosco e altri racconti” di Amparo Dávila (1928 – 2020), scrittrice e poetessa messicana che rappresenta un’anomalia nella costellazione della letteratura sudamericana. Un’autrice che ha scelto, in modo religioso, sacrale e sacralizzante, di essere una devota adepta dell’affabulazione. La sua grandezza sta nel tratteggiare profili di donne che hanno il conturbante in casa, e nel creare una prosa in cui si mescolano sapientemente la semplicità e lo sconcerto

Alla fine della lettura di Morte nel bosco e altri racconti di Amparo Dávila ci si sente soltanto ciechi, perché ci si ritrova con gli occhi pieni di terra.

Non si riesce a vedere più nulla, l’inchiostro cancella tutto e diventa erba rampicante, muschio. Le parole diventano spine, in un caleidoscopio silvestre che sa di arbusti e sterpaglie.

Il volume, tradotto da Giulia Zavagna e pubblicato da Safarà, contiene i racconti dell’autrice ancora inediti in Italia, ed è un piccolo scrigno di erba e foglie scure.

Morte nel bosco e altri racconti, Amparo Dàvila

Amparo Dávila e il meritato riconoscimento: un’anomalia nella costellazione della letteratura sudamericana

Dávila non è solo una scrittrice, ma una sacerdotessa della narrativa messicana: nata nel 1928 e scomparsa nel 2020 a Città del Messico, prima della morte è riuscita a prendersi il suo posto di astro privilegiato nell’universo della letteratura sudamericana femminile.

Per vari decenni, Dávila ha conosciuto l’indifferenza e l’oblio da parte della cultura letteraria del Messico: il suo nome, però, è diventato un inno altisonante e potente, un inno capace di ergersi a canto general delle donne del suo paese.

Ciò risulta davvero paradossale, perché Dávila non ha mai voluto, di proposito, fare letteratura di denuncia sociale o attivismo, e nemmeno ha mai scritto autofiction.

Nella costellazione della letteratura sudamericana, Dávila è un unicum, una particella pulsante che sbriciola ogni cliché in modo da polverizzarlo sul nascere.

Dávila ha scelto, in modo religioso, sacrale e sacralizzante, di essere una devota adepta dell’affabulazione. Dávila è affabulatrice, narratrice, cuentista, e ha bruciato il suo incenso narrativo sull’altare del racconto.

Dagli autori di letteratura sudamericana ci si aspettano vessilli, stendardi e opere “rappresentative”, ma Dávila non è nulla di tutto ciò: è una scrittrice pura, che ha fatto della forza narrativa la sua stella polare e la sua spada, ha saputo sviscerare il nocciolo di un popolo per poi sputarlo ai piedi del mondo. Lo ha fatto servendosi di fabulae, racconti, e ha messo in difficoltà generazioni intere di critici: del resto, la forma di narrazione che Dávila sceglie è ibrida, multiforme e insolita, è una forma rarissima e peculiare di racconto fantastico, qualcosa che affonda negli extraños.

La letteratura sudamericana ha una lunga tradizione di narrazioni perturbanti, oniriche e sinistre, da Julio Cortázar a Horacio Quiroga, passando anche per Elena Garro e Gabriel Garcìa Màrquez (da Occhi di cane azzurro a Cent’anni di solitudine), ma Dávila avvolge i suoi personaggi nella patina del domestico.

I suoi personaggi sono lontani da dittature, eroi, guerre di conquista, ma sono perlopiù donne che hanno il perturbante in casa, sotto il tappeto, nel patio, nel sentiero dietro il giardino, tra le stanze, sotto il cuscino, nell’armadio. Ed è questo il caso di Morte nel bosco e altri racconti, un vero e proprio viaggio misterico, forse orfico, che si snoda tra stanze, corridoi e boschi, e ogni luogo viene risemantizzato secondo una personale elegia del mostruoso.

Dávila e la sua poetica degli extraños: la liricità e lo sconcerto tra stanze e boschi

“La signorina Julia, come la chiamavano i colleghi in ufficio, non dormiva da più di un mese e la cosa cominciava a notarsi. Le sue guance avevano perso il tono rosato che Julia conservava nonostante il passare degli anni, risultato di una vita sana, metodica e tranquilla. Aveva grandi e profonde occhiaie, i vestiti che le cascavano di dosso. E i suoi colleghi avevano notato, piuttosto allarmati, che la memoria della signorina Julia non era più quella di una volta”.

Come si evince da uno dei primi racconti, La signorina Julia, la prosa di Dávila è apparentemente molto semplice. Nella sua brevitas, c’è sempre qualcosa di sgusciante, che allarma e che si insinua nelle ondulazioni del non detto; ed è proprio quello che Dávila non dice, a echeggiare come una moneta gettata nel bosco.

Le donne cantate da Dávila sono donne che arrivano piano piano alla follia, la scoprono come in un viaggio di iniziazione e deformazione insieme, si nutrono della pazzia e si riconoscono negli stessi occhi di un demone che covavano sotto il letto.

Questo potrebbe avvicinarla alla tradizione di Edgar Allan Poe, ma Dávila fa altro: scrive il terrore nei lineamenti delle sue donne, le veste con abiti che decide lei, è abile a far indossare loro tuniche, vestaglie e scialli che sono impregnati di orrore.

La signorina Julia è allucinata, è convinta di avere la casa infestata dai topi e al tempo stesso crede che i suoi colleghi e il suo fidanzato la considerino una prostituta, e nel finale del racconto si ritrova a stringere tra le mani la sua stessa pazzia e un colpo di scena che è una stoccata sanguinante sul fianco del lettore. La parola di Dávila è iridescente e fatata, fiabesca nel suo essere infernale, e se ne serve scarnificandola: soltanto verso la fine dei racconti, riesce a colorarla con ampie campiture di mostrifero e ferino.

“Prima ci fu un immenso dolore. Un lento sgretolarsi nel silenzio. Un disarticolarsi nel vento oscuro. Perdere d’un tratto le radici e ritrovarsi senza appoggio, in una caduta sorda. Precipitare da una cima molto alta. Un ricordo, una visione, un volto, il volto del silenzio, dell’acqua… Le parole infine come qualcosa che si tocca e si palpa, le parole come materia ineludibile. E tutto accompagnato da una musica oscura e insistente. Una musica che non si sa dove arriva, ma che si ascolta. Poi venne lo scudiscio del ramo fatto d’aria sul terrazzo. Lo stupore dell’uccello nel primo giorno di volo. Tutto fu leggero allora, e gassoso. La sostanza fu il fumo, o il sogno, la nebbia che si fa irrealtà”.

Nel racconto Il tempo distrutto, si tocca con mano il potere luccicante della parola di Dávila. Il bosco è un luogo dal quale sale e scende un’energia strana, luciferina e rassicurante insieme, un flauto di Pan che sprigiona un canto di naiadi, baccanti. Nel bosco si può gridare, ridere, piangere, fino a non sentire più la propria voce, nel bosco di Dávila le impronte si perdono e diventano zampe di animali, e poi si ritorna nella propria casa, come se nulla fosse. Questa è l’alchimia di questa scrittrice, anzi sacerdotessa, che si situa nel firmamento assieme a Silvina Ocampo e Clarice Lispector.

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“Quell’estate compii ventitré anni e Paulina quaranta, eppure lei non li dimostrava affatto, sembrava avere solo qualche anno più di me. Paulina era la sorella di mia madre e si era presa di me sin da pochi mesi dopo la mia nascita, quando ero rimasta orfana. Da allora avevo vissuto con lei e mia nonna Dorotea in una casa piena di fiori e gabbie con uccellini”.

In Dietro il cancello, c’è tutta la deflagrazione che nasce dal miscuglio incestuoso tra rassicurante e minaccia, e ogni cosa prolassa nello sconcerto. Lo sconcerto è nell’ambiente familiare: nel racconto che fornisce il titolo alla raccolta, Morte nel bosco, ci sono cose dappertutto.

“Ci sono cose dappertutto, è vero. Cose che tu hai accumulato e che mi hanno reso insopportabile questa casa…quei vasetti con i fiori di carta da pacchi, appesi da tutte le parti, perfino in bagno; le pareti tappezzate da calendari con paesaggi invernali e bambini rotondetti che sorridono, di foto di tutta la famiglia e perfino degli amici, di quadri fatti di cannucce colorate; i cestini da lavoro e le scatoline”.

Quello di Dávila è un inferno di conigli e colombe di gesso, di bambole di lana cotta, di frutti pieni di mosche. Un luogo demoniaco di alberi, appartamenti in affitto e boschi che diventano selve dantesche, selve dei suicidi piene di rami che sono braccia e mani.

La grandezza di Amparo Dávila è quella di riuscire a cantare l’orrore e le stelle marine, i becchi degli uccelli e i pozzi scavati nella terra, le stanze d’ospedale e la carta da parati, i crepuscoli incendiari e i mari di porpora. E i suoi racconti sono una lezione di letteratura purissima, qualcosa di ammaliante e di tirannico nel suo essere seducente: Dávila in questo è una specialista, una maga, la maga della Rayuela di Cortàzar, una cuentista nata, la reina del cuento fàntastico.

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