La scrittura dell’autrice argentina Hebe Uhart (1936-2018), tra i nomi più importanti della letteratura ispanoamericana del ‘900, indaga i dettagli della quotidianità, e narra di donne allucinate attraverso una prima persona spesso inaffidabile. Alla fine della lettura della raccolta di racconti “Un giorno qualunque” ci si innamora della concretezza degli oggetti e della capacità della scrittrice di rendere plasticamente la fenomenologia dei sentimenti umani…

La scrittura di Hebe Uhart (1936-2018) è una scrittura di dettagli, conchiglie, piume e oggetti dimenticati in fondo a una credenza.

La sua è una letteratura spigolosa e ruvida, che raggiunge la sua cifra stilistica ideale nella brevitas e nell’arte del centellinare tutto, offrendo al lettore dei piccoli bocconi di storie che poi rimangono bloccati in gola.

Il lettore riesce a deglutirli quando poi non ci pensa più, quando se ne dimentica; ma, all’improvviso, tornano tutti i fotogrammi evocati dalla scrittura di questa maestra della letteratura sudamericana, e tornano sotto forma di terribili scintille incendiarie.

Un giorno qualunque di Hebe Uhart

Un giorno qualunque, pubblicato da La Nuova Frontiera e tradotto da Giulia Di Filippo, è una raccolta di racconti brevi, quasi istantanei, che però sprigionano nuclei incandescenti. I testi di questo volume procedono per lampi e immortalano figure femminili che sanno essere fameliche e sazie insieme, veri e propri specchi cangianti dell’autrice, alter ego che mutano all’occorrenza.

Un giorno qualunque: una raccolta di racconti che indaga i dettagli della quotidianità

Tutti i racconti della raccolta compongono le tessere di una figura prismatica e crudele, spaventosa come la pelle di un serpente: bisogna assumerne a piccole dosi, perché la scrittura concentra molta materia densa nel distillato di pochissime righe. Una densità incantatoria, che è ammaestrata con leggerezza, perché Hebe Uhart riesce a tenere le fila di una vera e propria fenomenologia dei sentimenti umani.

Più che un elenco di categorie umane, Un giorno qualunque si presenta come un vero e proprio bestiario, perché isola dei dettagli piccoli e istintivi, delle schegge primordiali che raccontano un’America latina imprigionata nella filigrana del tempo. Un’America Latina che potrebbe raccontare il tessuto sociale di un secolo fa o dell’altro ieri.

Ma chi è quest’autrice argentina, che per molto tempo è stata sconosciuta ai più?

Hebe Uhart è nata nel 1936 a Moreno, nella provincia di Buenos Aires, e da piccola era molto legata alla zia affetta da schizofrenia paranoide: la donna aveva una casa meravigliosa, come racconta sempre Uhart, ma la distrusse gettando secchiate d’acqua alle pareti. La “tìa loca”, come la chiamava la giovane Uhart, è stata fonte d’ispirazione per la scrittrice, che fuggiva da lei per liberarsi da una madre ansiosissima e autoritaria, che stravedeva per il figlio maschio, il fratello di Hebe, morto poi in un incidente all’età di ventisette anni.

Hebe Uhart è stata un’adolescente schiva e timidissima e aveva l’abitudine di inviare telegrammi agli amici e piangere molto da sola nella propria stanza; si vestiva soltanto di nero e si lavava con il sapone per il bucato, una pratica ascetica inventata da lei stessa.

Ha poi avuto varie tormentate relazioni amorose, tra cui una con un uomo sposato, e ha insegnato in una scuola elementare per pagarsi gli studi alla facoltà di Filosofia; si è poi data agli eccessi e all’alcolismo e ha vissuto una sorta di rifiuto categorico da parte del mondo editoriale. Riuscirà dopo molto tempo a trovare un impiego stabile nel mondo dell’insegnamento, a pubblicare e dirigere prestigiosi laboratori di scrittura a Buenos Aires.

Un giorno qualunque procede per sprazzi, fa giganteggiare una figura di donna alla volta, figure distorte e distorcenti, in cui si agitano tutte le idiosincrasie dell’autrice, spesso nerissime e talvolta luminose e abbacinanti.

L’incipit del primo racconto è cadenzato, sincopato e a tratti cantilenante nella sua limpidezza spietata: Da un po’ di tempo sentivo una specie di stanchezza che non sapevo a cosa imputare. La imputavo soprattutto al lavoro. Ci pensavo spesso ma senza trovare il modo di alleggerire il carico. Le faccende di casa occupavano gran parte del mio tempo, non perché volessi avere una casa particolarmente bella e pulita, ma perché era una casa grande, con un giardino altrettanto grande, e vecchia, di quelle case con le pareti alte e piene di ragnatele e con il battiscopa ricoperto di intonaco.

Il racconto si svolge e si srotola velocemente e Uhart, morta nel 2018, ci presenta il ritratto di una donna sconfitta e dalla vita mediocre, che tenta di sfuggire dalle pareti asfissianti della sua casa per avere un po’ di calore umano e si cerca una domestica capace di farle compagnia: arriva in casa la figura insensata di Gina, ragazza ingenuotta di provincia, dai capelli biondi come lanugine e dalla saggezza popolana.

Gina è la nuova domestica della protagonista del racconto, e la narrazione procede spedita e aleggia nelle stanze con la stessa impalpabilità del fumo, trascinando il lettore in dialoghi serrati e allucinatori. Si rimane incatenati alla concretezza di dettagli nitidi, che si fanno correlativo oggettivo e simbolico della narrazione stessa: la terra che rimane sotto i letti, e che la domestica non si cura di spazzare, le carte da gioco per fare i solitari, le guance di un colore stranamente rosa.

Il terriccio, la ghiaia che entra in casa e che diventa ecosistema domestico, umido e rampicante, è uno dei leitmotiv della letteratura sudamericana, soprattutto quella del boom americano, che ha fatto la fortuna di certi passaggi màrqueziani; in questo caso, però, la terra non sta a significare opulenza immaginifica e sontuosità dell’ordito narrativo, ma è terra di sottrazione, sabbia del non detto e pulviscolo terrestre e di silenzio.

Nel segno dell’oblio e del silenzio si conclude il racconto, la domestica, vagamente ignorante (ma anche questo lo si intuisce soltanto, ricostruendo i dettagli ben cesellati) scaltra abbastanza da togliere alla protagonista l’unico uomo che le abbia mai rivolto la parola.

Hebe Uhart e il culto degli oggetti, tra voce narrante e realtà allucinata

Gli uomini li conosco abbastanza bene, io, perché sono una prostituta della casa della signora Liu. I miei genitori mi ci hanno messo quando ero giovane perché ritenevano che fosse una buona sistemazione per me. Il primo uomo che ho conosciuto, avrò avuto sì e no sedici anni, era tormentato dai fantasmi che credeva di vedere nella stanza.

Così si apre un altro racconto di Un giorno qualunque, sempre seguendo la stessa tecnica narrativa dell’incipit d’effetto nella sua semplicità, di impatto e dal sapore salmodiante.

Non so perché, ad alcuni uomini raccontavo storie della mia infanzia tormentata: erano tutte inventate, ma quando le raccontavo, ci credevo anch’io.

Una nenia, una liturgia, tutto è recitato e simulato nei racconti di Uhart e si ha l’impressione di non potersi fidare nemmeno per un nanosecondo della voce narrante, che è volutamente incosciente, menzognera e spesso infantile, salvo poi aprirsi in slanci di maturità spiazzante che ribaltano ogni idea narratologica.

Non ci si fida mai della voce narrante, ma si ha la sensazione certa, e inoppugnabile, di potersi affidare alla chiaroveggenza degli oggetti e dei dettagli, che costituiscono un contrappunto esattissimo: I biscotti sembrano fatti con il pangrattato o con pane di farina ricostituita. Gli unici che sanno mangiare i biscotti come si deve sono i cani: li acchiappano al volo, li addentano rumorosamente e li ingoiano in un baleno, alzando un po’ la testa. Non volevo fare neanche un budino, perché il budino è un protoalimento e ricorda le meduse. Nè un pan di Spagna bagnato, perché è una torta infida. L’impasto è intriso di liquore; uno lo morde tranquillo, aspettandosi che sappia di torta, ma scopre che sa di altro.

Uhart affida ogni chiarimento, esplicazione, azione chiarificatrice alla luminosità sensoriale, tattile e sinestetica degli oggetti, punta ogni cosa sui dettagli, non potendo affidarsi – e far affidare gli altri- alla voce narrante che è volutamente stonata, sgraziata e aerea.

La sua forza sta nella contraddizione, nel dire tutto il contrario di tutto, nell’affermare verità che si sfaldano come argilla rossa, nel dichiarare a gran voce delle bugie. Tutto, in Un giorno qualunque, ricade nell’imbuto degli oggetti, delle cose, delle piante, che hanno il compito rabdomantico di svelare la verità narrativa: Ho rimandato il più a lungo possibile l’uso della malvagità necessaria a sopravvivere, ignorando la mia e quella degli altri. Associo la malvagità alla mondanità, alla capacità di discernere immediatamente se una pianta è una falsa camomilla o una margherita, se un pietra è preziosa o meno.

La forza di questo tipo di scrittura è la sua matrice spiccatamente filosofica: come scrive Mariana Enrìquez, la prosa di Hebe Uhart mescola sapientemente stupore, filosofia e scoperta, come se ogni cosa normale in realtà fosse anche la più strana.

Ci sono dei momenti in cui la spigolosità del dettato si irrobustisce e la liricità irrompe e diventa qualcosa di sanguigno: Adesso che sono un po’ più strega, noto una vena volgare nel mio carattere. Mangio direttamente dalla pentola, svelta; o faccio l’esatto contrario, mi siedo in un ristorante in cui masticano tutti in maniera scrupolosa sei volte ogni boccone, perché fa bene alla salute, e sento che mi piace mangiare in quel modo, come se fossimo cavalli; mi innamoro di vecchie infradito, dopo aver lavato il balcone do tanta acqua alle piante per risporcare tutto di fango.

In questi spaccati, la voce narrante sembra recuperare un po’ di quella verità che aveva abbandonato, e si fa materica, sporca, espressionistica e viscerale: nell’abbandonarsi all’oscenità e alla mimica del corpo, si fa più vera.

Alla fine di Un giorno qualunque si viene colti da un cerchio alla testa, come dopo averla picchiata leggermente.

Ci si sente accarezzati e aggrediti, perché ogni donna-alter ego-deuteragonista dei racconti fa esplodere delle micce di emotività sopita, fa brillare dei fuochi fatui e provoca scosse telluriche. Ci si innamora delle varie voci narranti, per quanto bugiarde siano, ci si affeziona alla poetica degli oggetti e anche della levità della sofferenza, che Uhart riesce a maneggiare con una leggerezza spaventosa, micidiale, di piombo.

Ma non è stato sempre così, non era così. Prima che pensassi di liberarmi dalle zavorre e di prendere tre piccioni con una fava, per due anni ho sofferto come non avevo mai sofferto in vita mia; una mattina ho pianto con la stessa intensità per due motivi diversi. Ho capito cosa succede con chi muore.

Alla fine della lettura si ha la certezza di aver capito davvero cosa succede con chi muore, si ha la certezza di aver affondato le mani in qualche tipo di mistero che non si conosce. E alla fine si sceglie di andar via, portandosi dietro “il nulla, il proprio nulla di inesauribile segreto”.

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