“La letteratura non ‘deve’ fare niente. Ma la letteratura ‘può’: può permettersi di guardare nell’abisso. Come fare poi a raccontare questo abisso? Secondo me, nel modo più bello possibile: solo attraverso la bellezza si può davvero rappresentare l’orrore”. In occasione dell’uscita de “Il Continente bianco”, ilLibraio.it ha intervistato Andrea Tarabbia: “C’è qualcosa che mi attrae nel rovistare nel torbido, nel mettere le mani nel fango”. L’autore, vincitore del Premio Campiello 2019, ha parlato del rapporto tra Male e scrittura, raccontando il suo nuovo romanzo: una storia incentrata su un gruppo di neofascisti che “incarna il fascino che certe idee di estrema destra hanno esercitato, ed esercitano ancora oggi, sulla borghesia italiana”

Esistono abissi dentro i quali non vorremmo mai guardare. Eppure, viene quasi naturale sporgersi, forse per curiosità o, se si ha la vocazione per la parola scritta, anche per qualcosa di più: per il tentativo di comprenderne, se non la natura, quanto meno l’innegabile fascino. È in questi abissi che ci trascina Andrea Tarabbia, vincitore del Premio Campiello 2019 con Madrigale senza suono, con il suo nuovo romanzo Il Continente bianco (Bollati Boringhieri).

Dopo aver esplorato il tema del Male nei suoi precedenti lavori, Il demone a Beslan (in cui raccontava la strage avvenuta nella scuola di una cittadina dell’Ossezia del Nord) e Il giardino delle mosche (in cui ripercorre la vita di Andrej Čikatilo, assassino che mutilò e uccise nei modi più orrendi almeno cinquantasei persone), l’autore torna a parlare di come – e perché – siamo attratti dal buio e dall’oscurità.

il continente bianco andrea tarabbia

La storia – che suonerà familiare a chi ha letto L’odore del sangue di Goffredo Parise, libro a cui Tarabbia stesso, in apertura, dichiara di essersi ispirato – è incentrata su un gruppo di giovani fascisti fanatici, violenti e criminali, pronti a compiere gli atti più mostruosi pur di raggiungere il loro ideale di “purezza“.

Ma cos’è questa “purezza” che abbaglia e acceca come il bianco? E ancora: cos’è il dolore, che per ogni persona assume intensità e forme diverse; cos’è il potere che, per alcuni significa controllo e sopraffazione, ma anche privazione e umiliazione; cos’è il piacere, a quali strade può portare, a quali volontà può sottomettere?

Tutti questi interrogativi esistenziali si incarnano nella figura di Marcello Croce, venticinque anni, “bello come un Cristo del catechismo”, tanto seducente e ammaliante quanto spietato. Attorno a lui, le persone si piegano fino a prostrarsi, fino ad esaudire tutto ciò che lui ordina e desidera. Perfino Silvia, cinquantenne borghese che trascorre le sue giornate immersa nella ricchezza, gironzolando in un lussuoso salotto colmo di opere d’arte, mentre origlia, dall’altra parte del muro, le confessioni dei pazienti che suo marito tiene in terapia.

Non c’entra niente con Marcello lei, dovrebbe tenersi alla larga da quel movimento di fascisti, ma non può farne a meno: il suo destino sembra essere già segnato. Non può opporsi. Così come noi lettori, così come il narratore di questa vicenda: sembriamo tutti inermi, immobili, come se assistessimo a quello che accade da dentro un quadro. Non possiamo far altro che osservare; perché forse è nell’osservare, nel cercare di capire, che c’è la chiave di tutto. ilLibraio.it ne ha parlato con l’autore.

Tarabbia, partiamo proprio dallo sguardo, dal punto di vista con cui ha scelto di raccontare questa storia.
“Come nei precedenti romanzi, i miei narratori sono spesso osservatori che raccontano. Tuttavia ne Il Continente bianco ho voluto aggiungere un elemento in più, un elemento che rappresentasse anche la fatica di raccontare”.

Lei ne ha fatta molta?
“Sì, una fatica pazzesca. Quando ho iniziato a scrivere questa storia era il 2012. Avevo buttato giù una cinquantina di pagine, che poi avevo messo da parte per far spazio a Il giardino delle mosche. Ma continuavo a pensarci, continuavo a pensare che avrei voluto dedicarmi a un libro sul neofascismo, anche se non sapevo se era esattamente nelle mie corde”.

Cosa le ha fatto riprendere in mano il progetto?
“Proprio questo sentimento contrastante: la fatica di scrivere e, allo stesso tempo, il desiderio di continuare a volerlo fare”.

Quello che lei nel romanzo chiama “la serpe”.
“Esatto. Il Continente bianco è stata una storia che mi ha messo davvero in difficoltà, naturalmente per la natura del suo argomento, ma anche perché ogni volta che cercavo di metterla a fuoco mi sfuggiva, non si lasciava afferrare”.

Alla fine come è riuscito a farlo?
“Il romanzo nasce con la volontà di colmare un vuoto lasciato da Goffredo Parise nel suo L’odore del sangue, in cui l’autore racconta la relazione tra una donna della borghesia romana e un giovane fascista, al quale però non dà mai un nome. Io ho voluto riprendere questa storia, ambientarla ai giorni nostri, e dare un’identità precisa a questo ragazzo”.

Si tratta di Marcello Croce, un personaggio che descrive come una creatura quasi divina, una figura che incarna tanto il male quanto la bellezza. 
“Non solo: incarna anche il fascino che certe idee di estrema destra hanno esercitato, ed esercitano ancora oggi, sulla borghesia italiana. Per rappresentare questo, ho pensato di descrivere un giovane irresistibile, perfetto, capace di colpirti e di sedurti con un solo sguardo. Una sorta di pifferaio magico che segui senza sapere che sta per condurti verso un burrone”.

Forse perché, a volte, spingersi verso il burrone può essere anche affascinante?
“Non ho certezze su questo. Però mi sono chiesto: come è possibile che io, che sono una persona piuttosto ordinaria e tranquilla, sia sempre affascinato da queste storie violente? In fondo anche nei miei precedenti libri ho parlato di terroristi e di assassini, mentre adesso mi sono interfacciato con un gruppo di fascisti. Cosa significa questo? Non lo so. Cerco questo tipo di narrazioni, come fruitore e come autore, sicuramente perché c’è qualcosa che mi attrae nel rovistare nel torbido, nel mettere le mani nel fango. Ma non ho ancora una risposta definitiva. E, se posso dirlo, sono contento che sia così”.

Questo però non è soltanto un libro sul fascino del male. È anche un libro sulla scrittura, sulla riscrittura e sulla memoria. 
“Spesso nei miei libri compaiono citazioni e riscritture, in quest’ultimo in maniera ancora più evidente. Volevo raccontare la storia del Continente Bianco che, in quanto movimento neofascista, ha proprio l’obiettivo di riscrivere la Storia, riadattando all’epoca presente un’ideologia che dovrebbe essere morta nel 1945. Per farlo mi sono servito di parole e discorsi appartenenti a un tempo passato. Da questo punto di vista la forma del libro rispecchia molto il suo contenuto. Per esempio, in una scena del libro, c’è il personaggio di un onorevole, Malaspina, che appartiene a un partito di destra e, in un discorso, riprende le stesse esatte parole pronunciate da Rauti durante un comizio del 1949. Quando le ho lette e ho visto che ancora oggi potevano trovare consenso, mi sono spaventato”.

Il libro effettivamente in molti passaggi spaventa, soprattutto pensando al periodo in cui ci troviamo, agli episodi di razzismo e violenza che continuano ad avvenire, alle elezioni che ci aspettano. Come vede l’uscita in questo contesto?
“In realtà è un caso che il libro esca proprio ora. Come ho detto, avevo iniziato a lavorarci già dieci anni fa, ma in fondo oggi il clima del paese non è cambiato poi tanto. Forse la differenza vera è che a livello istituzionale è diventato più accettabile che alcune persone abbiano determinate idee e possano essere mandate al governo. In ogni caso ho aspettato tanto prima di scrivere questa storia, ma perché non ero pronto, avevo troppa fretta, troppo bisogno di farlo – e mi conosco, so che quando ho la fregola di fare una cosa, è meglio se mi fermo. Ho aspettato che i tempi fossero maturi per me, non per il Paese”.

Ma si può dire che il suo libro abbia un intento politico?
“C’è un intento di rappresentazione di ciò che vediamo e di ciò che viviamo. Ma non c’è intento di puntare il dito contro qualcuno o qualcosa. Non sono quel tipo di autore, e sinceramente non amo quel tipo di autori. Non ho scritto questo romanzo ‘per fare la lezione’. L’ho scritto perché avevo un’esigenza letteraria, perché come scrittore mi sembrava che il mio percorso mi portasse a dovermi occupare di questo argomento. Ho parlato di terrorismo, di assassini, di musicisti folli, e a un certo punto mi sono detto: adesso devi parlare di quello che vedi fuori dalla tua finestra. Ma non in modo didattico, bensì letterario”.

Spieghi meglio.
“Il problema è sempre quello. Un romanzo, per quanto descriva persone e situazioni orribili, deve essere esteticamente bello. Penso a quello che è per me uno dei pezzi più grandi della letteratura di tutti i tempi, ma anche il più terribile: la lettera confessione di Stavrogin, nei Demoni, in cui il narratore racconta di aver violentato una bambina e poi di non aver fatto nulla per evitarne il suicidio. È atroce, ma anche lirico, bellissimo, umano. Il punto, però, è che per leggere si può provare disgusto o piacere, a seconda del proprio grado di cinismo, ma per scrivere la questione è più complessa”.

Da un punto di vista morale?
“Morale ed estetico. Più volte mi sono posto il dubbio: ma sto rendendo piacevoli questi personaggi e le loro azioni? Qual è il linguaggio più adatto per raccontare qualcosa di inaccettabile?”.

E a che risposta è arrivato?
“Nel momento in cui ho deciso di dare vita a questo romanzo, dopo tanti anni trascorsi a pensarci, ho dovuto fare pace con le questioni morali. Ho deciso che l’avrei scritto perché sentivo un afflato civile, sentivo che c’era bisogno di un libro che provasse a parlare del neofascismo oggi, cercando però al tempo stesso di dargli una dignità letteraria. Così come un tempo avevano fatto autori come Parise e Pratolini. Mi sono quindi concentrato sulla forma, sulla bellezza delle pagine”.

È questo che secondo lei deve fare la letteratura?
“La letteratura non deve fare niente. Ma la letteratura può: può permettersi di guardare nell’abisso. Come fare poi a raccontare questo abisso? Secondo me, nel modo più bello possibile: solo attraverso la bellezza si può davvero rappresentare l’orrore”.

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