Anna Seghers nasce Netty Reiling nel 1900 a Magonza. Una delle più apprezzate voci del novecento tedesco, scrittrice dell’esilio insieme, tra gli altri, a Thomas Mann e Bertolt Brecht, è stata penalizzata dal suo impegno politico, che l’ha resa quasi intoccabile per il blocco occidentale fino alla morte, avvenuta nel 1983 a Berlino Est. Il recupero dei suoi testi è un evento gioioso non solo per il gusto della lettura, ma per lo stesso spirito che Seghers ha messo nella sua scrittura…

Farebbe un gran bene a chiunque, a un certo punto della vita, imbattersi in Anna Seghers. Non è semplice, perché gran parte del suo lavoro in Italia è fuori catalogo, reperibile tutt’al più in qualche biblioteca o nelle bancarelle dell’usato. Una delle più apprezzate voci del novecento tedesco, scrittrice dell’esilio insieme, tra gli altri, a Thomas Mann e Bertolt Brecht, Seghers è stata penalizzata dal suo impegno politico, che l’ha resa quasi intoccabile per il blocco occidentale fino alla morte, avvenuta nel 1983 a Berlino Est.

Nel luglio del 2020, fortunatamente, LOrma ha ripubblicato Transito, nella traduzione di Eusebio Trabucchi, permettendoci di ritrovare nelle sue pagine una delle descrizioni più accurate mai apparse in letteratura dello stato di indeterminatezza del rifugiato.

Nel 1940 un uomo, tedesco disertore, arriva dalla Parigi occupata a Marsiglia, l’ultimo porto sicuro – lo sarà per poco – da cui i rifugiati di tutta Europa si imbarcano per il Messico. Ha con sé la valigetta appartenuta a uno scrittore morto, con i suoi documenti e un manoscritto inedito. Assumendo l’identità dello scrittore ai fini di ottenere un visto di transito per partire, passa le sue giornate tra un consolato e l’altro, incontrando di volta in volta le stesse facce e le stesse storie, e in particolare una donna che tutte le sere fa il giro dei caffé, alla ricerca del marito che tutti sembrano aver intravisto nei diversi uffici.

Anna Seghers, Transito

Per poter restare bisogna dimostrare di doversene andare: sotto l’apparente immobilità del protagonista, nelle sue peregrinazioni sempre uguali tra sale d’attesa e i ristoranti in cui mangiare pizza e bere vino rosato, si intuisce l’inquietudine, il non poter trovare più un posto.

La guerra ha stravolto tutto, come una faglia si è allargata nella comunità, spezzando i legami, questionando identità. Transito, nella sua straniante burocrazia, ha un’indefinita malinconia, una serie di riti infinitesimali talmente ripetuti da divenire simboli, picchetti tra cui si tende la nostalgia di quello che non si potrà afferrare.

Nel 2018 il regista tedesco Christian Petzold ha ben interpretato il sentimento dietro le pagine di Seghers, con un adattamento (La donna dello scrittore, disponibile su MUBI) che riporta la vicenda ai giorni nostri, almeno per quanto riguarda la messinscena.

L’impianto è lo stesso, l’occupazione è sempre quella tedesca; l’anno potrebbe essere ancora il 1940 anche se le macchine che vediamo per strada non sono d’epoca. È un film di echi, di cerchi che non si sovrappongono mai completamente. L’opera di Seghers è così: ricordi quasi di altre vite che paiono affiorare, gesti già compiuti che si arrichiscono di significati una volta che si conosce il futuro.

Anna Seghers nasce Netty Reiling nel 1900 a Magonza. È figlia di un antiquario, la madre viene da una famiglia di commercianti; sono ebrei ortodossi. Si laurea in storia dell’arte e sinologia, con una tesi sulla figura dell’ebreo e l’ebraismo nell’arte di Rembrandt.

Pubblica un racconto con lo pseudonimo Antje Seghers, probabile riferimento a un pittore olandese coevo di Rembrandt: assumerà ufficialmente il nome di Anna Seghers quando entrerà nel Partito comunista tedesco e nella Lega degli scrittori proletari e rivoluzionari, nel 1928.

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Lo stesso anno esce La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, che arriva in Italia, per Einaudi, vent’anni dopo. Il suo impegno politico emerge già da queste pagine, coniugandosi a quello stile che diventerà riconoscibile: una prosa asciutta, tenuta, che si impenna in passaggi raffinatissimi, lirici. Nella cronaca della ribellione di un gruppo di pescatori emergono figure quasi mitiche, un altro tratto caratterizzante della scrittura di Seghers, che al realismo marxista affianca fantastiche deviazioni non per rifiutare il vero, ma per completarlo. La dimensione a volte fiabesca dei suoi testi è parte integrante di uno sguardo che sa davvero osservare, funge da chiave d’interpretazione della realtà stessa.

Nel suo essere al contempo affascinata dalle leggende fondative, dal mito, e dall’esplorazione di quegli aspetti del quotidiano che la società borghese offusca trova infatti la sua voce di narratrice, che nel racconto crea e restituisce un senso più ampio, non limitandosi a una mera descrizione.

Anna Seghers, La rivolta dei pescatori di Santa Barbara

È il 1941 quando lascia infine l’Europa in guerra per rifugiarsi, proprio come il protagonista di Transito, in Messico, con il marito e i figli. In quegli anni di esilio frequenta Frida Kahlo e Tina Modotti, che morirà di lì a breve, e lavora ai suoi tre testi più famosi: La settima croce (1942), da cui viene tratto l’omonimo film con Spencer Tracy, sulla fuga di sette deportati da un campo di concentramento; per l’appunto Transito (in alcune traduzioni: Visto di transito); e il racconto lungo La gita delle ragazze morte (l’ultima edizione italiana è di Marsilio, 2010, a cura di Rita Calabrese), un’opera che pare distaccarsi dal resto della sua produzione, concendendo ancora più spazio all’aspetto onirico e soprattutto prendendo un’inedita piega autobiografica.

Anna Seghers, La gita delle ragazze morte

Per la prima volta compare un io femminile in cui si può identificare la stessa Seghers: la voce narrante sta compiendo un’escursione, in Messico, dopo essersi ripresa da mesi di malattia – nel 1943 l’autrice è stata coinvolta in un grave incidente stradale – quando qualcosa nel paesaggio ardente e brullo sembra rinverdirsi, e sente una voce chiamarla con un nome antico, mai più sentito: Netty. Seguendo questa suggestione si immerge nei cespugli e si ritrova sulla terrazza di un caffè sul Reno, in un pomeriggio di gita con le compagne di scuola.

Come in un piano sequenza, dal richiamo del suo nome lo sguardo si sposta sull’altalena dove stanno le più care amiche, Leni e Marianne, che la guerra metterà su fronti opposti: una troverà la morte in un campo di concentramento, l’altra si sposerà con un gerarca nazista, ma sarà comunque annientata in un bombardamento in città, dopo essersi rifiutata di nascondere la figlia dell’altra.

Le tre ragazze ancora giovani e ignare si siedono con l’insegnante a una lunga tavolata, e Netty passa in rassegna i volti delle compagne: accanto a loro è come se si sedesse anche la loro versione adulta, e la fine che incontreranno.

Ancora una volta lo spettro della guerra, che nel racconto è già in atto, ma anche molti anni a venire, crepa il terreno intorno a loro. Il verde rigoglioso delle sponde del Reno, i battelli che scivolano sull’acqua e le strade al crepuscolo della città in cui fanno ritorno, e che Netty percorre con il cuore che le batte, in attesa di rivedere la madre che nel presente è stata deportata, risplendono intatti; ma nella testa di Seghers, già in Messico, si disgregano davanti al ricordo di quello che accadrà.
Come per il piccolo Jans, in uno dei suoi primi racconti (Jans deve morire, e/o), la salita sul pianerottolo di casa è ardua, e la terra sembra mancare sotto i piedi: proprio come in un sogno, quando il risveglio giunge sul più bello.

Dopo la guerra Seghers rientra a Berlino Est, dove passa, secondo i racconti dell’amica Christa Wolf, anni parecchio difficili, tra la morte di numerosi compagni, la perdita della madre e lo spaesamento di fronte a un Paese devastato – sempre nella Gita delle ragazze morte, del resto, scrive: «Per quanti saggi siano mai stati scritti sulla patria, la storia patria e l’amore per la patria, mai si è fatto cenno che proprio il nostro gruppo di ragazze appoggiate le une alle altre, mentre si risaliva la corrente, alla luce radente del meriggio, faceva parte della patria».

Diventa presidente dell’Unione degli scrittori della DDR, che talvolta continua a spiazzare, con scelte stilistiche e riflessioni sulla letteratura in contrasto con le loro stesse direttive. Nel 1973 esce Incontro a Praga (Guanda, 1983), e nel racconto che dà il titolo alla raccolta Kafka, Gogol’ e Hoffmann ragionano sul mestiere dello scrittore: in questo modo Anna Seghers arriva a restituire valore allo stesso Romanticismo, rigettato dalla politica culturale a lei contemporanea.

Anna Seghers, Incontro a Praga

Non sempre Wolf e Seghers si troveranno sulla stessa pagina, ma è proprio Seghers che insegna all’altra a mantenere un atteggiamento critico, a prendere posizioni a volte scomode; Rita Calabrese ricorda, nel suo contributo per Oltrecanone. Per una cartografia della scrittura femminile (a cura di Anna Maria Crispino, Manifestolibri, Roma 2003), che in uno scambio con Lukács, nel 1938, Seghers difende quei poeti che si sono «feriti la fronte».

Il recupero dei suoi testi è un evento gioioso non solo per il gusto della lettura, dell’eleganza che nasce improvvisa in mezzo a termini duri, dell’incanto sotterraneo che coesiste con una realtà disperata, ma per lo stesso spirito che Seghers ha messo nella sua scrittura.

Narratrice con lo sguardo curioso della ricercatrice, e piena di fiducia nei confronti delle generazioni successive, Seghers sta dalla parte di tutti quelli che si rompono la testa pur di non adeguarsi a quello in cui non si riconoscono, ed è a questi che lascia un patrimonio letterario preziosissimo.

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