“Streghe fraterne” è un’altra opera dell’universo post-esotico di Antoine Volodine: tre testi in risonanza fra loro che raccontano l’angoscia di un mondo desolato, consegnato alla fine e alla catastrofe, e attraversato solo dalla potenza inestinguibile della parola – L’approfondimento

Tre testi separati. Tre frammenti, con forme diverse, in risonanza tra loro senza alcun legame.

Il primo ha l’aspetto di un interrogatorio, o un resoconto, offerto a un interlocutore sconosciuto.

Il secondo ha nome Vociferazioni e si compone di frasi brevi, un ibrido di slogan e precetti sciamanici.

E il terzo è un unica frase di cento pagine, il delirio ipnotico di una voce che si reincarna in infinite esistenze di uomini e donne, tutte segnate dalla violenza, dalla sessualità distorta e dalla morte.

Streghe fraterne di Antoine Volodine

Streghe fraterne di Antoine Volodine (in copertina, nella foto di Jean-Didier Wagneur, ndr) edito da 66thand2nd nella traduzione di Anna D’Elia, allarga ulteriormente i confini del post-esotismo, con quello che questa peculiare corrente letteraria – di cui Volodine è capofila e al tempo stesso unica anima o ennesima maschera – definisce un intrarcane. Ovvero due testi di natura differente accostati e lasciati comunicare, per generare un’intimità misteriosa, una reciproca condivisione. Ma qui i testi sono appunto tre, e dunque la prima sfida è cercare quali delle tre voci sono da mettere in contatto fra loro, dove nasca l’affinità nel mezzo della catastrofe.

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Perché di certo l’universo post-esotico sembra in questo libro farsi, se possibile, ancora più lugubre. Ci sono come sempre dei richiami alla rivoluzione irrimediabilmente perduta, ma questa volta restano sullo sfondo più che in ogni altro dei libri finora editi in italiano. Come se l’ipotesi di ricostruzione di un mondo felice fosse definitivamente tramontata, e il mondo stesso ne avesse introiettato la scomparsa. Il Partito portatore di ideologie egualitarie non è solo sconfitto, ma nemmeno sopravvive più come memoria nelle coscienze e nei sogni degli uomini e delle donne. È ormai solo un relitto, fatto di disillusione e fatalismo.

Balza in primo piano, invece, la degenerazione della specie umana, attraversata in particolare da una pulsione sessuale completamente spogliata d’amore e ridotta all’erotismo torvo e arido del possesso fine a se stesso.

Chi ha letto altre opere di Volodine ha presente protagonisti disfatti ma ancora attraversati dal ricordo dell’amore – fosse anche solo un’eco, la traccia senza nome che resta impressa persino quando tutto svanisce nel disastro. Qui invece i personaggi si abbandonano alla carnalità più brutale, e il racconto si fa cronaca molto fisica del dolore di corpi abusati, torturati, prigionieri di una degradazione incessante.

Teatro o morte, il primo dei testi, è raccontato in prima persona da Eliane Schubert, che deve rispondere a domande o ingiunzioni – spesso incalzanti e sbrigative – e spiegare così la storia della sua troupe di teatro itinerante, la Compagnia della Gran Nidiante. Sorpresi dai predoni nel loro vagare gli attori e le attrici conosceranno la morte, la miseria, la schiavitù e, nel caso della voce narrante, perfino una forma di assurda intimità con i banditi, che sembrano del resto una comunità di individui slegati e apatici nella loro crudeltà, dediti a un’esistenza ormai priva di scopi precisi, se non quelli di placare i loro appetiti. 

Le Vociferazioni – una cantopera, secondo i canoni postesoticitrascina il lettore direttamente nella litania di invocazioni misteriose, lampi folli dove si annullano i contrari, richiami oscuri che potrebbero riguardare il passato quanto il futuro.

Dura nox sed nox, terza e ultima parte, è la corsa sfrenata di un’anima che sopravvive a se stessa sulla scena di uno spazio e un tempo dilatati o ristretti, ma comunque stravolti. Storia di perpetua discordia che non trova pace e, per dirla con un verbo caro a Volodine, rinasce in un continuo folleggiare attraverso i corpi posseduti e mossi come marionette, gli uni contro gli altri o gli uni dentro gli altri, senza che si possa scorgere il termine di questo movimento infernale.

In Streghe Fraterne i personaggi sono soli. Faticano a restare vicini, per le sventure di cui sono vittime e per una sorta di intimo sentimento di disfatta. Sembra possibile solo una sopraffazione incessante e sorda, quasi un riflesso condizionato di malvagità nel panorama desolato o instabile del mondo. Ed è emblematico che l’unico momento di contatto venato di dolcezza e comunione, sia pure sempre nella sofferenza, avvenga quando Yee Mitcheva, una delle donne nel gruppo dei banditi, scambia le vociferazioni teatrali di Eliane Schubert per delle formule rituali che possono salvare dalla morte un’altra di loro, e vuole unirsi alla declamazione. “Non mi facevo domande su tale inaspettata unione. Era così e basta, uno dei rari momenti in cui la parola crea una forma di tempo, e di spazio, insieme alla morte del tempo e dello spazio.

Se l’unica potenza che regna al di sopra del dolore nell’universo di Volodine è la parola, come formula o come racconto, è proprio perché riesce a seguire da vicino il destino degli abitanti del mondo distrutto, e può farsi sussurro folle, brulichio privo di senso, o ricordo spietato di efferatezze subite e compiute. Ogni storia è eco dell’orrore di villaggi devastati, carne oltraggiata, vita che ha la stessa sostanza della morte. Però la narrazione non si arresta, non si ferma mai, divaricando all’estremo la forbice tra la necessità di continuare a raccontare e l’abbandono di ogni speranza di cui il racconto parla, che significa la sua stessa inutilità.

La letteratura di Volodine non annuncia la fine, ma proviene dall’interno della fine, ed è una fine dilatata, una fine senza pace. A chi si sta parlando, e perché, è la domanda che il post-esotismo consegna al lettore, interrogandolo sulla sua propria ragion d’essere. Resta qualcosa da fare, le frasi che vengono pronunciate hanno qualche potere di riaprire alla vita, o sono solo sussurri che accompagnano il declino, la discesa sempre più in fondo, nel buio? Una delle vociferazioni con cui si conclude Teatro o morte condensa la tensione della storia inestinguibile e la minaccia di una morte infinita: “DOPO LA FINE DI OGNI VIAGGIO, RIPRENDI IL CAMMINO! DOPO LA FINE DEL CAMMINO, RIPRENDI IL CAMMINO!”.

Fotografia header: Credits: Jean-Didier Wagneur

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