Con “Il grido” il talentuoso Luciano Funetta scrive una storia di fantasmi ambientata in un futuro post-apocalittico popolato da reietti, da criminali e da disperati. Una novella che, tra visioni e allucinazioni, ci parla del nostro rapporto con la realtà e con le strutture del mondo in cui viviamo. Un grande debutto per la collana “Altrove” di Chiarelettere – L’approfondimento

Negli ultimi anni, anche in Italia, si è creata in maniera naturale una fitta trama di corrispondenze tra una serie di discorsi, pure diversissimi, che continuano a intersecarsi in un groviglio inestricabile, un campo di forze, una serie di riverberi che illuminano questo e quell’altro. Il discorso sul futuro; con i suoi corollari estetici, il successo delle narrazioni distopiche, l’attenzione alle varie declinazioni della speculative fiction; e politici, il bisogno di immaginare un orizzonte utopico che non sappiamo come declinare; il collasso della realtà; quindi, il tentativo di superare la stagione dei nuovi realismi; la fine di un certo nostalgismo che usa il passato come un archivio; l’importanza della visione; della psichedelia; la rivincita dell’immaginario, quella dei generi – svuotati, ibridati – per cui riemerge, oltre alla fantascienza, anche il fantastico; e quella dei nerd; la commistione tra virtuale e reale; le intelligenze artificiali; il ritorno delle religioni; il collasso del paradigma del cittadino informato e razionale; le fake news e i big data; la complessità; l’insufficienza della cronaca nel descrivere il mondo; l’antropocene e l’ecologia; la velocità; le insospettabili simmetrie tra magia e tecnologia; xenofemminismi e accelerazionismo.

Certo, non ancora una logica culturale, quanto un reticolo di strade che vanno in posti diversi ma hanno i loro incroci trafficati, che dall’alto fanno parte della stessa città; una rete di connessione con nodi diversi per storia e gerarchia. Una nebulosa che si riflette nei nostri bisogno estetici, quindi nei nostri consumi culturali sempre più all’insegna dello spaesamento: leggiamo China Miéville, Margaret Atwood, Lovecraft, Volodine, Jeff VanderMeer, Le Guin, Ligotti, Cărtărescu, Liu Cixin, Angela Carter, Philip K. Dick. E anche nella produzione culturale, come dimostrano i cataloghi di alcune collane, le riviste o i festival. Riflette lo stesso spaesamento, come notava Giuseppe Carrara su doppiozero, il lavoro di una casa editrice come Tunué, della cui narrativa italiana si occupa Vanni Santoni, per fare un esempio. Ma anche quello di altre realtà editoriali. A questo proposito, questa “nebulosa” si arricchisce di un nuovo tassello, la collana “Altrove” di Chiarelettere, curata da Michele Vaccari, scrittore ed editor, che punta convintamente (anche) verso questa direzione. Infatti, parafrasando le parole di Vaccari – in un’intervista di Antonio Russo De Vivo su Crapula Club – si tratta di un esperimento di “anarchia editoriale” che si rivolge al futuro, con una narrativa di anticipazione che punta a riflettere sulla produzione letteraria come evento artistico e investe sulle capacità degli autori di casa nostra. Collana che esordisce con Il grido di Luciano Funetta, un’allucinata novella distopica, da parte di uno dei più talentuosi scrittori italiani. Una partenza col botto.

grido funetta

Già Dalle Rovine (Tunuè, 2016) di Funetta (classe ’86, di Gioia del Colle) era stato un caso editoriale, con la conquista della dozzina del Premio Strega, all’esordio, nonostante fosse una storia di “fantasmi” che intrecciava una narrazione disturbante con il punto di vista di un noi spettrale e inumano; che parlava di erotismo e serpenti e amore e terrore e snuff movies, in una prosa bolaniana. Ora, con Il grido, Funetta riparte da quelle stesse atmosfere – che Alcide Pierantozzi su Rivista Studio descriveva come “New Italian Weirdness” – le atmosfere di una città “che sembrava in preda a un’ubriacatura senza fine, [che] sembrò entrare in una fase successiva, quella del malessere e del pentimento, ma soprattutto dell’oblio di qualcosa che si è commesso e che non si riesce, nonostante sforzi immani, a ripescare nelle cataratte della memoria”. Un passaggio di Dalle Rovine che potrebbe essere il pitch de Il grido.


In effetti, la storia è ambientata in quello che sembra un futuro distopico, in una città imprecisata dell’Italia. Unico orizzonte di un mondo ormai collassato, imploso, cugino del regno dei morti (“I morti stavano vincendo e i vivi stavano morendo”). Una città dove non esiste più un sistema di trasporti, abolito da uno sciopero permanente, e dove da un giorno all’altro gli individui senza chiedere spiegazioni si mettono a percorre le vecchie rotaie dei treni in un deambulare frenetico che costituisce “uno spettacolo privo di senso”. Dove i bambini “non sembravano bambini. La pelle lucida delle loro facce, le occhiaie profonde e verdi come muschio li facevano somigliare a muffe o a una tetra specie di funghi. Erano brandelli di colla secca e fughe di gas”. Dove si aggirano ridde di disperati, folli, farabutti e assassini incapaci di scendere a patti con l’orrore della realtà, i Dormienti: “Perché vi spostate? Per nostalgia. Veniamo in città per sognare di ricordare le vite passate”. Ma si tratta di un desiderio di fuga, di abisso o di oblio.

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In questo scenario regna un senso di disorientamento perpetuo, le prime distinzioni che saltano infatti sono quelle che pertengono alle minime categorie con cui organizziamo la nostra percezione della realtà. La distinzione tra bene e male, tra giusto e sbagliato, per esempio; gli uomini e le donne sono il prodotto di un’umanità che sta raschiando il fondo dell’abisso – “sembravano ospiti di un campo di concentramento luminoso e parato a festa” – e, come tutti i disperati, sono gravati da un terrore e da una rassegnazione allo stato delle cose che ne costituisce sia la colpa sia l’assoluzione, come il risultato della sottrazione di qualsiasi speranza dal mondo. Così, Stepan era un uomo che avrebbe sì saputo arrampicarsi sugli alberi, “ma si trovava costretto a raschiare il selciato, a muoversi con gli altri, a essere quello che era”. Tra i personaggi che incontriamo, una strana compagnia di visionari che si dedicano, in un Orto botanico ai bordi di un sogno, a cercare l’oblio attraverso le droghe. Di questa schiera fa parte Lena Morse, la protagonista del romanzo, orfana, cresciuta dalle Dame, entità plurali ai confini della realtà che si dedicano a un perpetuo canto, e ora impiegata in un’impresa di pulizie. Lena vede il mondo attraverso una continua oscillazione di allucinazioni, tra visioni, droghe e schizofrenia.

Attraverso il suo punto di vista, Funetta crea un mondo inattendibile: imperniato in un dedalo di contraddizioni, dove non c’è alcuna differenza tra i diversi piani di realtà. È un mondo dove i morti vengono seppelliti su Internet e le persone attraverso un portale online cercano uno svago solitario esplorando luoghi inabitati, come la Foresta Nera. Dove la cosa più simile a una verità è un segreto custodito da una zingara in un luna park e i prodotti del suo oscuro scrutare fuoriescono da un buco sul collo, insieme a liquidi nerastri. In un mondo allucinato, le allucinazioni di Lena non fanno che complicare il quadro, moltiplicare lo spaesamento. Aveva ragione Pierantozzi, quando parlava di weirdness.

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Per orientarsi sembra proficuo leggere Il grido attraverso le categorie elaborate da Mark Fisher nel suo The weird and the eerie (Repeater Books, 2016). Lo strano (il weird) e l’inquietante (l’eerie), come si potrebbero tradurre impropriamente in italiano, infatti, sembrano essere le dominanti che caratterizzano sia la narrativa di Funetta sia una parte della narrativa recente. Hanno a che fare con le strategie attraverso le quali parliamo di un mondo che ci appare come sempre più complesso, contraddittorio e irrazionale; nonché del rapporto con l’esterno, l’altro, il diverso che muta la nostra con la percezione delle cose.

Il weird ha che fare con un perturbante a cui si aggiunge un sentore di sbagliato (“wrongness”): “un’entità o un oggetto weird è così strano che ci porta a sentire che non dovrebbe esistere, o almeno non qui”. È la sensazione conseguente allo “shock trascendentale che l’incontro con l’esterno produce”. Mentre, al contrario, l’eerie risulta da un paesaggio umano svuotato di figure, è costituito “da un fallimento dell’assenza o da un da un fallimento della presenza”. Riguarda l’imprescrutabilità del reale, lo sconosciuto: c’è un qualcosa dove non dovrebbe esserci nulla, oppure dove dovrebbe esserci qualcosa non c’è nulla. “Spettri e Macerie”, sintetizzava Claudia Durastanti su Pixarthinking.

Proprio tra spettri e macerie si muove Lena. La protagonista del Grido, infatti, avverte “la presenza di una massa scura, senza forma, che inghiottiva lo spazio, come se la stanza stesse svanendo”. Vede una violentissima rissa laddove nessuno si era mosso. “Ogni cosa per lei è fluttuante”. È un personaggio che “non sapeva a conti fatti di esistere in quella forma, di trovarsi lì, ridotta a qualcosa che esisteva senza vivere”. E ancora – e sembra una parafrasi del discorso di Fisher – per lei “le cose appaiono dove non dovrebbero. Quando succede è come entrare in un posto in cui non sono mai stata ma che abito da sempre. Un posto pieno di luce, dove tutto è vivido. È come essere invisibile, a volte, ma più doloroso. È come non esistere. Ti senti scavare dentro il corpo. In più vedo strane cose. Sento voci e musiche. La musica, in particolare mi spaventa: viene fuori da un apparecchio che qualcuno continua a prendere a martellate per farlo smettere, e così la musica arriva alle mie orecchie distrutta. Quindi, in sostanza, io penso di poter vedere e sentire tutto, ma non è vero”.

Spettri e macerie, che, come in un frattale, si replicano a diversi livelli nella storia – “la visione di Lena aumentava di profondità e ramificazioni in modo vertiginoso” – andando contemporaneamente ad aumentare – in maniera logicamente paradossale – e il disorientamento e la possibilità di comprensione. Per tutto il romanzo viviamo le vicende di alcuni personaggi che ci erano stati presentanti come una diretta emanazione della mente sfigurata di Lena; allo stesso modo, anche i paesaggi virtuali esplorati dalla protagonista si popolano di presenze oscure, confuse con la sua realtà; per lei e per i lettori “Ogni volta era così, come doversi riappropriare di quel luogo, riabituarsi alle sue stranezze, ai suoi angoli ciechi, a quello che lì dentro non funzionava, oltre che alle presenze che facevano la loro comparsa al mattino e di sera tornavano nei loro inaccessibili anfratti. Il fatto che Lena sapesse con esattezza che tutto non era altro che un’emanazione della sua mente, e che la casa non era altro che una casa, non cambiava”.

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Lo strano e l’inquientante ci parlano di un mondo incomprensibile, accellerato, in cui il nostro rapporto con le cose conserva un sentore di sbagliato; in cui, come i dormienti, vaghiamo con la sensazione che ci sia qualcosa che non va nella trama del reale. Evocano gli stessi fantasmi, le stesse presenze che riposano nelle strutture della realtà. Si potrebbe pensare a una fuga nell’immaginario, ma piuttosto, c’è la forza del simbolo, della metafora, delle narrazioni con cui comprendiamole soglie tra i mondi e le loro rovine. Strumenti cognitivi. Del resto, una natura politica, è esplicita anche nel testo di Fisher: un esempio di eeriness è il capitale (il famoso spettro che s’aggira per l’Europa), in quanto forza misteriosa: pur trattandosi di un’entità apparentemente immateriale e priva di sostanza esercita un’influenza superiore a qualsiasi altra entità dotata di un corpo. “Ho provato a sorprenderlo e immaginarlo”, dice Lena del suo fantasma, “ma lui non me lo lascia fare”.

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Scriveva Burroughs “niente è vero, tutto è possibile”. Proprio per questo Il grido, una storia di fantasmi, ha qualcosa da dirci. Del resto, anche Funetta spariglia le carte: che sia il presente o il futuro, dice, sta al lettore deciderlo in base alla sua sensibilità. Invece sta a lui, o meglio, agli scrittori che hanno una qualche ambizione, continuare a fare quello Fortini sosteneva facesse Kafka che “ha saputo quello che noi abbiamo soltanto vissuto”. E “combatte tuttora per noi, nel buio, contro i draghi, come fanno i santi”.

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