Forse non sapremo mai perché siamo così ossessionati dai refusi, e neanche riusciremo a debellarli. Però, se da un lato abbiamo il dovere di onorare al massimo la lingua (e la grammatica) italiana e chi ne fruisce, dall’altro sarebbe sano mettere un limite ai nostri timori: ecco come prendere spunto da chi già prova a esorcizzarne l’impatto…

Chi lavora con la scrittura arriva a fine giornata con una speranza costante: aver scampato il suo refuso quotidiano. E parliamo al singolare per bontà, dal momento che i refusi in realtà sono come le ciliegie: uno tira l’altro. O come le disgrazie, che non vengono mai sole.

Considerato sintomo di sciatteria, di superficialità, di disattenzione, ma specialmente – e qui casca “l’asino” – di frettolosità, il refuso fa infatti perdere punti alla cura e all’eleganza, e di conseguenza si annida nella stanchezza di molte giornate frenetiche.

Da dove derivi questa avversione atavica e totalizzante non sapremmo dirlo con certezza. Forse dall’ipercorrettismo a cui a scuola una volta ci si abituava presto, in nome di un comune approccio grammaticale prescrittivista che non tollerava sbagli o distrazioni di sorta.

Forse da una tendenza alla severità linguistica che nel frattempo abbiamo introiettato e trasformato in un fenomeno di snobismo di massa, o forse ancora dalla consapevolezza che – con i nuovi mezzi di comunicazione – a rendere virale e imperituro un refuso bastino giusto un un paio di clic.

Sta di fatto che, per quanto restino esecrabili e da evitare, i refusi continuano a saltellare tra un carattere tipografico e l’altro nonostante gli strumenti di correzione automatica e le improbabili riletture a cui ci si sottopone modificando famiglia e dimensioni dei font (perché l’occhio vigili sulla forma, spiegano gli esperti).

Come evitare allora una volta per tutte il doloroso impatto che ne consegue? La risposta risiede in parte nei più lunghi e scrupolosi controlli da effettuare, mentre in parte è forse da individuare in una nuova e necessaria presa di coscienza.

Il più grande sbaglio nella vita è quello di avere sempre paura di sbagliare“, sosteneva lo scrittore e filosofo statunitense Elbert Hubbard (1856-1915) e proprio da lui potremmo imparare la lezione più importante sui refusi, e cioè che meno impareremo a temerli e meno loro ci perseguiteranno.

Un po’ perché smetteremo di vederli (o di pensare di vederli) ovunque, un po’ perché ne avremo relativizzato la portata e accettato l’inevitabile presenza saltuaria in un universo sempre imperfetto, pur nella consapevolezza che ci siano refusi più gravi di altri e che tutti restino nemici del BGL (Bene Galattico Letterario) di nuovo conio.

Benché la strada sia ancora lunga, non è quindi troppo presto per provare a disinnescare una determinata mentalità riscoprendo il potere creativo e liberatorio dei refusi, come già succede da decenni fra chi nel mondo della cultura si espone condividendo le proprie sviste più bizzarre, ormai anche sui social network.

Da prendere a modello, giusto per citarne due, sono per esempio traduttori e docenti del calibro di Daniele Petruccioli (quest’anno protagonista al Premio Strega con il suo romanzo d’esordio, La casa delle madri) e di Enrico Terrinoni (che si è dedicato, fra l’altro, ad autorevoli studi sulla prosa di James Joyce), a cui si devono espressioni immaginifiche come “l’ira del tè” (al posto de “l’ora”), “con gran stipendio di energie” (anziché “dispendio”), “lo spiegamento di forse” (e non di “forze”) o “mi vide e arrostì” (in vece di “arrossì”).

Naturalmente si tratta di refusi corretti poi tempestivamente nel testo; nel frattempo, tuttavia, in rete diventano un’occasione per riflettere sui risvolti più imprevedibili di uno scambio di lettere, e per esorcizzare il terrore stesso di sbagliare, guadagnandone in sollievo e accettazione.

Insomma, magari non capiremo perché siamo così ossessionati dai refusi e neanche riusciremo a toglierceli di torno. Però, se da un lato abbiamo il dovere di onorare al massimo la lingua italiana e chi ne fruisce, dall’altro lato sarebbe sano mettere un limite ai nostri timori.

Quantomeno per imparare, nei casi in cui proprio non siamo stati capaci di evitarlo, a farci venire il sangue “amato”, anziché farcelo venire “amaro“. Parola, anche stavolta, di Daniele Petruccioli.