“Mi è venuto da pensare al mio petto e al buco che ospita fin da bambina…”. Da “Il Mago di Oz” ad “Alice nel paese delle meraviglie”, passando per la poesia di Amelia Rosselli, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Giudici, per arrivare alle opere di autori come Beppe Fenoglio, Salman Rushdie e Aimee Bender: su ilLibraio.it un percorso di lettura suggestivo, a cura di Giulia Binando Melis, all’esordio con il romanzo “La bambina sputafuoco”: “Ogni occhio sul mondo è un libro che ha le pagine come ciglia”

Sedevo sul davanzale della finestra, in mansarda. Era ruvido e fresco, impassibile di fronte al giugno umido che luccicava la ghiaia del cortile e le mie ginocchia, da muovere con attenzione per evitare graffi che non arrivavano mai, perché per ore io restavo immobile. Con le manine di quella misura non avevo ancora fretta e giravo le pagine lentamente: era Il Mago di Oz, di Frank L. Baum, e ciò che mi faceva frizzare il cervello era la storia del ciclone.

Dorothy e Totò, il cagnolino, non avevano fatto in tempo a rifugiarsi nella cantina anticiclone sotto la botola del pavimento, e quello li aveva soffiati in alto insieme alla casetta di legno, ma senza ucciderli, anzi, li sorvegliava al centro del suo occhio calmo e buio, trasportandoli altrove. Il viaggio era lungo e si erano addormentati, risvegliati poi da un colpo meno brusco del previsto, quando “il ciclone aveva deposto la casetta, con una delicatezza strana per un ciclone, nel bel mezzo di un paese bellissimo”.

Qualche anno fa (mani più grandi), ho letto un libro di Roberto Casati e Achille C. Varzi che parla dei buchi, ne individua tre tipi. I fori: che attraversano un oggetto, come la toppa di una porta o l’occhio del ciclone, e hanno due lati liberi; le concavità, che si installano all’esterno dell’oggetto, tipo le caverne o la cantina anticiclone, e hanno un solo lato libero; e le cavità, che si celano all’interno di un oggetto, ad esempio le bollicine nel vetro soffiato o la scatola cranica che protegge il cervello di uno scrittore, e non hanno nessun lato libero.

Ora, la faccio brevissima: la tesi principale è che un buco “è un corpo immateriale situato sulla superficie (o su qualche superficie) di un oggetto materiale” da cui dipende. Ovvero, non ha senso parlare di buchi senza parlare del posto in cui risiedono.

Così, tornando alla finestra sul cortile, mi è venuto da pensare al mio petto e al buco che ospita fin da bambina. Non è niente di esclusivo, ce l’abbiamo proprio tutti, ma quando mi è capitato di leggere Anna Llenas, ho finto, per un po’, che Il buco parlasse di me.

La protagonista, Giulia, ha un grande buco nella pancia: arriva un giorno, imprevisto, e vomita “mostri che ingoiavano ogni cosa”. È un tipo di voragine che ognuno di noi conosce bene, di quelle che scavano i fantasmi di chi non vogliamo lasciare andare, e che fanno così male da non dubitare che siano reali, come succede in Marzapane, di Aimee Bender, dove, dopo la morte del padre, un uomo si sveglia con un buco nella pancia che lo fa somigliare a una ciambella – fisicamente sta bene, gli organi si sono solo fatti un po’ più in là. L’unico modo in cui sembra potere essere riempito è con il ventre gonfio della moglie incinta, che “l’avrebbe potuto indossare come un’enorme tavoletta del cesso fatta di carne”. Anche lei è orfana di madre, la stessa vecchietta che darà alla luce qualche mese dopo, partorendola in ospedale; “se avessi saputo che era mia madre, almeno un paio di sigarette me le sarei fumate”.

Insomma, ciò che non lasciamo andare sgomita, grida forte, e per farlo stare zitto cerchiamo in tutti i modi di mettere un tappo alla voragine che abita; io stessa credo di aver iniziato a leggere per riempirla di storie. Non a caso, parlando di buchi, anche Casati e Varzi riflettono sulla loro “proprietà morfologica” fondamentale: la “riempibilità”. Giulia, infatti, prova a imbottire il suo grande buco nella pancia con tutti i generi di tappi: dolci, premi, regali, persone, gattini da accarezzare, ma niente funziona e lei scoppia in un enorme pianto. A quel punto, il buco si mette a parlare: “smetti di cercare fuori, cerca dentro di te…”. (Troppo semplice? Troppo difficile? È così che si accoglie una buona soluzione?). Lei scopre di avere dentro un mondo e lo lascia libero di traboccare. Tutto si colora, tutto suona, è in verità un grande foro da cui la realtà interiore si dispiega nelle sue tonalità. È un’avventura nella propria fantasia, un cascare dentro sé stessi, la tana del Bianconiglio al posto dell’ombelico.

Eppure, come ci insegna Lewis Carroll, nel Paese delle Meraviglie non ci si incappa per caso, ma per curiosità. Alice trova la soglia del fantastico perché vuole sapere dov’è che va il Bianconiglio: se ha tutta questa fretta deve essere un posto importante. Si tuffa, e quando arriva in fondo al tunnel le succede più o meno ogni cosa: personaggi bizzarri, guerre, feste, e un continuo singhiozzo tra diventare piccola e grande che somiglia molto a quel che capita nel tempo, crescendo.

Di Alice nel paese delle meraviglie esistono molte interpretazioni, ma forse possiamo concordare su un punto: il posto verso cui corre il Bianconiglio è importante perché lì si fugge alla “sbiadita realtà senza fantasia degli adulti”. È un luogo in cui serve fare un salto di frequente per rimanere tonici, per non perdere “moltezza”. E assomigliarsi di più, ma a quelli di una volta, noi bimbi attenti, perfettamente vivi, vitali, viventi.

Perché crescere ha dei rischi per un motivo anche strutturale: con il tempo, la testa si inclina verso il punto finale e le orecchie sentono meglio il sussurrio dolce della morte. Serve lo strillo acuto, “ed allora allargai il petto per urlare”, che riporta su. È Il Gorgo di Beppe Fenoglio, i figli che salvano i padri, li trascinano via dal mulinello, la lama rotante degli anni, (non) “tagliategli la testa!”.

Eppure, non sempre basta. Groppo di concause, gravità sociale, scivolare è semplice quando “la tua vita termina a imbuto”. Ve la ricorderete, la scena in cui Guido Morselli spinge il protagonista di Dissipatio HG dentro un buco ipogeo per finirsi nelle acque di un lago sotterraneo. E quando si accorge di non essere disposto a “cambiare materia” (questo è morire), torna indietro e si accorge che l’umanità intera si è volatilizzata. E in quel momento assurdo il suo suicidio è allo stesso tempo compiuto e non compiuto, e lui sconta la seconda solitudine, unico fronte al mondo svelenito in cui, ora, “qualcosa verdeggia e cresce”. Segno che, in fondo, “la società è soltanto una cattiva abitudine”.

Che il mondo starebbe meglio senza noi umani è un pensiero che oggi lampeggia spesso (mi stacco dal testo di Morselli, considerazione breve, non trattenuta – se ci sentiamo così in dovere di far star meglio questo pianeta possiamo fare un sacco di altre cose prima di sciacquarcene le mani nel desiderio d’autoestinzione, ovviamente valido solo se tutti insieme e non adesso).

Ad ogni modo, la violenza è caratteristica, non si scappa. A proposito di questo c’è un libro che mi ha profondamente segnata, intitolato come ciò che mostra, ossia che la guerra è In culo al mondo, ce l’abbiamo dentro. Lo ha scritto Antonio Lobo Antunes con un’abilità angosciante. Parla di sangue e di cose da dimenticare con incontrollabili richieste di affetto; prende l’uomo e lo sbuccia, sbircia dentro i buchi di chi riceve un proiettile e di chi invece lo spara. Ci trova dentro la furia ingenua di cui siamo farciti, di cui finiamo impagliati, animali fermati e così ridicoli “che cominciavamo all’improvviso a ridere, […] ci guardavamo in viso e la derisione scorreva in forma di lacrime di compassione, e di schermo, e di rabbia, lungo le nostre gote magre finché il capitano, […] si metteva a suonare il claxon, spaventando i pipistrelli dei manghi e gli insetti fantastici dell’Angola, e noi tacevamo di colpo come fanno i bambini a metà del loro pianto, e guardavamo le tenebre attorno con un’immensa meravigli”. Lui la nera meraviglia l’ha raccontata, l’ha raccolta dagli avanzi macilenti della colonizzazione salazarista, restituendoci una costola di storia europea servita cruda e tenerissima.

Una vicenda che somiglia a tutte le altre, prima e dopo, nella storia circolare di quei tornadi terribili di cui scoviamo – ogni volta ogni epoca – l’occhio calmo e nero, “un gran buio, lassù e il vento ululava”. Ci sorprendiamo di come siamo bravi a scavarci ovunque il rifugio: un libro salvo in cui liberare le voci, farle danzare, e slacciare gli occhi dall’oggettività di un fatto per guardarlo da dove ci pare; dal mio sguardo, il tuo, quello di un personaggio non reale che vede la realtà. O di tutti insieme, anche, come ne I bambini della mezzanotte di Salman Rushdie, in cui la storia dell’India (l’indipendenza dalla Gran Bretagna, la guerra con il Pakistan) è una scaglia dentro gli occhi di ognuno.

Tra l’altro, quel libro magico e chiassoso, è forellato da principio: solo nel primo capitolo abbiamo il buco nella pancia del giovane dottor Adam Aziz, che si piazza al posto della fede perduta; i tunnel delle sue grandi narici attraverso cui “il mondo esterno incontra il mondo interno”; e poi il lenzuolo forato che un padre geloso tende davanti alla figlia perché il dottore possa ispezionarla senza la vergogna di vederla intera. Ma giorno dopo giorno, i suoi malori si spostano, e lui percorre la mappa del suo corpo, ricostruendo il mosaico di Naseem Ghani (non dico altro, ferma).

È un movimento che ci chiama perché somiglia al modo in cui raduniamo la realtà: non possiamo mai guardarla tutta insieme, allora la sbirciamo. Sono brecce, bocconi, Appunti sparsi e persi, come le poesie di Amelia Rosselli. Lei vita sminuzzata dai lutti, pensiero smollicato dalla schizofrenia, lingua divisa in tre (francese, inglese, italiano). Lei raccoglie i suoi scampoli e li conta, li ordina, li disordina, li nomina. E quando prova a cucirli insieme il tessuto è pieno di buchi: “in me mistero d’esplosione / io luna esploitata”. Lo stesso linguaggio è pieno di buchi, e anche di toppe (esploitata non esiste: è un misto di tra exploité, exploited, esplosa). Pier Paolo Pasolini li aveva chiamati “lapsus poetici“, come quelli di Freud, quelle aperture in cui l’inconscio trova un canale dove fluire, dove il mondo interno incontra il mondo esterno (il naso di Adam Aziz). E che in bocca alla Rosselli diventano “errori creativi”. Perché, come ha detto Giovanni Giudici, “l’illuminazione poetica si ha in una zona […] a mezza via tra l’intenzione di dire e il già detto”.

Se la mettiamo in questo modo, allora è lì che dobbiamo andare a cercare; che siano fori, concavità, cavità, spazi piccoli e grandi, vuoti in realtà sempre pieni. Bisogna prestare attenzione, perché ogni istante diventa una soglia, la possibilità di accogliere un pezzo in più, un altro occhio spalancato sul mondo. E ogni occhio sul mondo è un libro che ha le pagine come ciglia.

La bambina sputafuoco

L’AUTRICE E IL LIBROGiulia Binando Melis è laureata in Filosofia con una tesi sulla morte. Lavora come freelance ed è cantante piano bar. La bambina sputafuoco (Garzanti) è il suo romanzo d’esordio, tratto da un’esperienza personale. Nel libro racconta la storia di Mina, una bambina a cui piacciono molte cose: denti di leone, tonno in scatola, libri, ricotta, lucciole e soprattutto i draghi, e le fiamme che escono dalla loro bocca.

I draghi nessuno li uccide, sono fortissimi e per questo Mina si sente una di loro, infatti la prima volta che vede Lorenzo non si spaventa. Anche lui, come lei, è molto arrabbiato. Per questo diventano amici e immaginano un mondo tutto loro: ci sono mostri dentro i laghi, gnomi che aspettano il diploma di magia, gocce d’acqua che diventano animali fantastici e licantropi che esistono davvero. Qualche adulto li critica, dice che quella non è immaginazione, ma a loro non interessa. Perché in realtà il loro piano segreto è un altro: andare via dall’ospedale dentro cui vivono ormai da troppo tempo e raggiungere il mondo fuori. Perché quando rivedranno il cielo, ogni cosa cambierà. Perché quando sono insieme nessuno riesce a batterli.

Abbiamo parlato di...