È con toni da tragicommedia che “Chinatown interiore” di Charles Yu, già vincitore del National Book Award e del Prix Médicis étranger, soppesa il delicato rapporto fra politiche della convivenza e rispetto della tradizione di appartenenza, nell’atipica impaginazione di una sceneggiatura televisiva, interpretando i retroscena razziali del cosiddetto modello assimilazionista – vale a dire quel processo di integrazione volto a incorporare le comunità multietniche purché “conformi” a un paradigma occidentale di riferimento – tanto un’accurata riflessione su quanto, per un immigrato di prima o successiva generazione, sia complesso costruire il proprio futuro – L’approfondimento

In una panoramica d’insieme circa i numerosi appellativi generici sovente attribuiti alle minoranze asiatiche e asioamericane in senso lato intese (“Cinese, ovviamente, ma anche muso giallo, occhi a mandorla, dieci dollali, mangiariso”, “Un Tizio” dunque), è con toni da tragicommedia e interlinee da teatro che questo divertente Chinatown interiore di Charles Yu, per La nave di Teseo nella traduzione di Claudia Durastanti, soppesa il delicato rapporto fra politiche della convivenza e rispetto della tradizione di appartenenza, nell’atipica impaginazione di una sceneggiatura televisiva, interpretando tanto i retroscena razziali del cosiddetto modello assimilazionista – vale a dire quel processo di integrazione volto a incorporare le comunità multietniche purché “conformi” a un paradigma occidentale di riferimento – tanto un’accurata riflessione su quanto, per un immigrato di prima o successiva generazione, sia complesso costruire il proprio futuro.

Chinatown Interiore

“Nel mondo di Bianca e Nero – che è un mondo di bianchi e neri – chiunque parte come Asiatico non meglio identificato. Chiunque somigli a te, voglio dire. A meno che non sia una donna, in qual caso partirà come Bella asiatica”, così ci introduce a inizio lettura l’aspirante attore Willis Wu, Orientale imperscrutabile sullo sfondo/Ragazzo delle consegne, e quindi comparsa semplice sul set di Bianca e Nero, seriale televisivo da sempre ambientato nella medesima location dove il protagonista presta servizio come Aiuto cameriere, nel ristorante cinese Il Tempio d’oro.

Qui, nella lunga tradizione degli immigrati che vivono sopra il posto di lavoro, Willis e gli altri caratteristi del romanzo sovrappongono i propri impegni di manovalanze con i sogni ben più straordinari di una carriera sotto i riflettori, accanto alle grandi star da tappeto rosso (Sarah Green, poliziotta Bianca, e Miles Turner, poliziotto Nero) fantasticando di ottenere un ruolo ricorrente nel programma, fosse pure quello mal pagato di Guest star molto speciale o magari uno meglio retribuito da Fenomeno del kung fu o da Boss di mezza tacca.

D’altronde, a prescindere dagli obiettivi pregressi di curriculum o dalle specifiche competenze acquisite, in America non sembra esserci diverso spazio, per un Asiatico come tanti, se non in certe saltuarie scene da comprimario; così è in fondo avvenuto per Ming-Chen Wu, padre di Willis, un tempo dottorando all’Università della California e oggi povero Maestro di arti marziali presso il Condominio popolare, e così per la moglie in separazione Dorothy, ex Grazioso fiorellino taiwanese oramai troppo anziana anche solo per la parte di Seduttrice.

“Tutti i ragazzini giallini e magrolini su e giù per il quartiere a sognare lo stesso sogno”, insomma, “avete fatto del vostro meglio per diventare americani”. Già, perché con l’unica eccezione dell’introvabile Fratello maggiore, “l’allievo numero-uno-la-superstar-del-kung-fu-il-naturalmente-più-dotato”, colui che è riuscito a emanciparsi dalla periferia sino al punto da trasformarsi in leggenda, nessun personaggio in Chinatown Interiore s’immagina davvero artefice del proprio successo.

Adattandosi alle rigide regole imposte da Hollywood – “Quando muori fa schifo (…) La prima cosa che succede è che non puoi lavorare per quarantacinque giorni” – come pure alle più discriminatorie leggi per l’immigrazione su suolo U.S.A.- il Chinese Exclusion Act su tutte, poi abrogato nel 1943 – la comunità orientale sembra infatti aver rinunciato a qualsiasi forma di indipendenza, nello sterile bilancio fra suprematismo culturale (bianco e nero) e auto-ghettizzazione (anche gialla) divenendo, al contempo, vittima e carnefice della propria oppressione.

Che sia dunque questo il destino “da copione” purtroppo già scritto per Willis Wu? O che piuttosto le esperienze di trama (si leggano il rapporto fuori dal set con la detective Karen Lee, o la sua parte di papà kung fu con la loro piccola Phoebe Wu, anch’ella stellina prodigio in un musicale per bambini) l’abbiano reso, speriamo stavolta, protagonista indiscusso della sua stessa Storia?

In un finale a colpi di Jet Li e gongfu, che con attitudine da genere speculativo bene confonde i piani della finzione con quelli della verità storica, Charles Yu firma un campione d’incassi già vincitore del National Book Award e del Prix Médicis étranger, attingendo al suo passato di sceneggiatore televisivo (è del 2016 la sua esperienza su Westworld, seriale fantascientifico in onda su HBO) per affermarsi quale autore attivista dopo i due pure fortunati How to Live Safely in a Science Fictional Universe e Sorry Please Thank You, al momento inediti per l’Italia.

Essere giallo in America”, racconta l’autore in un’intervista rilasciata al Daily Pilot in occasione dell’uscita del libro, “significa sentirsi costantemente una Guest star (…) Ho sempre avuto la sensazione di non sapere quale fosse il mio posto. Non mi sono mai sentito al centro dell’azione. E ho pensato che questo romanzo avrebbe potuto costituire non solo un modo per riflettere su cosa si provi a essere parte di una minoranza asioamericana, ma altresì rappresentare una lente di ingrandimento per parlare di dinamiche razziali sotto una più ampia scala”.

Perché ciò è incontrovertibile: anche se, a uno sguardo esteriore, tutti possiamo apparire così simili quanto differenti, è a una riflessione Interiore che, alfine, ci riscopriamo meravigliosamente uguali.

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