I soggetti dei racconti che compongono “La città di Smeraldo” di Jennifer Egan (libro uscito nel 1993 e ora tradotto in italiano) emergono dalla grande narrativa americana contemporanea senza nasconderne l’inevitabile influenza: così, sogni di gloria, carriera, denaro si fronteggiano in contrasto perpetuo con la sfera degli affetti privati. La grande forza di quest’autrice ai tempi agli esordi sta nell’aver individuato, con una scrittura limpida e diretta, il filo aggrovigliato che lega queste due dimensioni apparentemente parallele… – L’approfondimento

Gli scritti giovanili rappresentano nella maggior parte dei casi delle chicche inestimabili per i lettori appassionati: una scatola nascosta in cui ci si diverte a ritrovare gli indizi acerbi di una scrittura nota, le ispirazioni originali, le immagini ricorrenti. C’è, certo, la consapevolezza di confrontarsi con una bozza in divenire, non priva di imperfezioni, ma che acquista un fascino particolare alla luce di una lettura analitica, attenta a cogliere il sottotesto.

È quello che accade con Emerald city (La città di Smeraldo, Mondadori 2019, traduzione di Giovanna Granato), primissima raccolta di racconti (siamo nel 1993) di una delle autrici americane più amate dalla contemporaneità: Jennifer Egan.

la città di smeraldo

Undici brevi storie che seguono il filo conduttore di tematiche comuni, analizzate di volta in volta da prospettive diverse che riflettono come un prisma il binomio aspettative-realtà in tutte le sue sfaccettature. Ogni personaggio fa infatti i conti con lo spettro del fallimento, che sia privato o professionale; tutti, allo stesso modo, evadono verso un altrove che diventa lo scenario a tratti surreale della loro presa di coscienza lasciando intravedere, in qualche caso, la speranza di un riscatto.

Perché la Cina?, che apre la raccolta, ne è la prova: calandola nella trama quasi banale di un operatore finanziario su cui grava l’accusa di frode, Egan introduce l’analisi pungente delle contorte dinamiche psicologiche innestate dal capitalismo, dalla borghesia, dalla “pressione economica” che calpesta i sogni di gioventù per approdare alla dolorosa coscienza del “cosa sono diventato?”.

Particolarmente emblematiche, in questo senso, le storie ambientate nello sfavillante mondo della moda e della fotografia, regno per eccellenza delle chimere. Classicissimo sia per contenuto che per scenario il racconto che dà il titolo alla raccolta, declinazione puntuale e delicata del tema della disillusione, dei sogni provinciali che si infrangono contro la durezza patinata della grande città per antonomasia, New York. I toni sono quasi fitzgeraldiani: “I loro occhi s’incontrarono sul vetro, poi sfarfallarono via. E pensò che New York era proprio questo: un posto che scintillava da lontano anche quando lo raggiungevi”.

Il finale, però, non è poi così desolante: c’è un universo che aspetta fuori. “Se non funziona”, conclude Stacey, modella senza un fotografo, “troverò un altro modo per vedere il mondo”. 

In questa ricerca costante di se stessi, spesso complicata riconquista di un’identità quando un evento mina alle basi le presunte certezze di una vita, i rapporti familiari balzano in primo piano: in Un pezzo soltanto il rimpianto assume la forma dell’elaborazione di un lutto; ne Il trucchetto dell’orologio si miscela in un contorto gioco delle coppie. Ma in questo contesto non sono solo i legami matrimoniali a vacillare sotto i colpi di una realtà che sconfessa ogni parvenza di onestà e eternità: anche i rapporti genitoriali ne pagano le conseguenze, come dimostra Puerto Vallarta, in cui il tradimento coinvolge più la relazione padre-figlia che quella coniugale.

Le dinamiche di coppia sono anche alla base di L’elemosina, dove il fallimento di un matrimonio diventa emblema della consapevolezza che nulla è eterno: la sola differenza è che c’è chi è condannato ad averne coscienza da sempre e chi lo scopre lentamente, a sue spese; e non è dato sapere quale delle due condizioni sia più invidiabile. 

“Persino i vestiti che portavo appena sposata non mi stanno più: costumi da bagno, gonne sotto il ginocchio, stivali neri: tutti fuori misura; sono diventata una versione ridotta di me stessa, il distillato di una precedente abbondanza di cui non mi rendevo neppure conto”.

Luoghi esotici, quindi, come meta sempre ricercata, ossessione e salvezza, da una parte rappresentano lo sfondo altro che accoglie l’evoluzione dei personaggi e contestualizza geograficamente il momento di rottura; dall’altra, diventano lo scenario di incontri  – casuali o “mentali” – che riportano a quel momento di un passato familiare e lontano in cui qualcosa è intervenuto a tracciare un sentiero obbligato.

Lettera a Josephine è forse il racconto più rappresentativo e maturo della raccolta: la Egan affronta tutti i temi precedentemente proposti, dalla pressione economica che si camuffa dietro gli agi sterili di una vita più che borghese, alle ambizioni giovanili abbandonate a vantaggio di uno stile di vita sopra la norma, per finire con la scoperta del mondo come sogno calato nel ritmo allentato e smitizzante della routine. Il tutto dipinto con una sensibilità che accompagna i lettori tra i flashback di una perdita dolorosa, quella dell’amica di una vita, allontanata dal denaro che ha permesso alla protagonista di realizzare l’idillio dei loro sogni comuni, rivelandone la natura illusoria.

I soggetti dei racconti che compongono La città di Smeraldo emergono dalla grande narrativa americana contemporanea senza nasconderne l’inevitabile influenza: così, sogni di gloria, carriera, denaro si fronteggiano in contrasto perpetuo con la sfera degli affetti privati.

La grande forza di questa Egan agli esordi sta nell’aver individuato, con una scrittura limpida e diretta, il filo aggrovigliato che lega queste due dimensioni apparentemente parallele: “l’orgoglio per una vita straordinaria” (La stilista).

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