Su ilLibraio.it un estratto (dedicato agli scout) da “Cose da fare a Francoforte quando sei morto”, il nuovo libro di Matteo Codignola, editor, traduttore e autore. Una sorta di reportage in forma di commedia, dedicato a quello che, prima della pandemia, è stato a lungo il raduno annuale più atteso dagli addetti ai lavori del mondo del libro. Tra feste, aste e personaggi molto particolari…

Cose da fare a Francoforte quando sei morto, il nuovo libro di Matteo Codignola, editor, traduttore e autore, è una sorta di reportage in forma di commedia, ricco di digressioni e salti temporali. Al centro del volume, in libreria per Adelphi, casa editrice dell’autore, il più importante appuntamento mondiale dell’editoria libraria, con i suoi personaggi, i suoi “affari”, le sue “aste” (“nel nostro mestiere, le trattative per l’acquisto di un libro hanno spesso una componente esoterica e una comica. Il problema è che spesso si sovrappongono…”) e le sue feste (“i party, a Francoforte, sono una specie di sistema solare, al cui centro staziona immobile, credo dal Genesi della Messe, la gazzarra permanente del Frankfurterhof. O il buco nero, se data la densità della materia al suo interno trovate la metafora più appropriata…”).

Copertina del libro Cose da fare a Francoforte quando sei morto

Codignola, che ha tradotto, fra gli altri, testi di Mordecai Richler, John McPhee e George Orwell, e che con Adelphi ha pubblicato Un tentativo di balena (2008), Mordecai (insieme a Mordecai e Noah Richler, 2011) e Vite brevi di tennisti eminenti (2018), racconta dal suo punto di vista molto personale e autoironico (avventurosi viaggi in macchina dall’Italia alla Germania in compagnia dell’amico fotografo inclusi) quello che prima della pandemia è stato a lungo il raduno annuale più atteso dagli addetti ai lavori del mondo del libro: del resto, come si legge nella presentazione, la Frankfurt Buchmesseviene spesso raccontata – o meglio, immaginata – come una specie di festa mobile vagamente esoterica, dove, in un tintinnio di calici, e a volte in un fruscio di lenzuola, signore e signori molto lungimiranti decidono cosa il pubblico dovrà comprare e leggere (soprattutto, comprare) nei dodici mesi successivi”.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto, dedicato agli “scout”:

«Scout».
Nel nostro gergo, non è una parola come le altre: è una specie di formula. Evoca una creatura a metà strada fra una divinità dispettosa, al permanente servizio dei concorrenti, e una bestiola da sacrificio. Per disgrazia, è sempre a causa delle sue macchinazioni in favore degli altri – non della tua lentezza, non delle tue esitazioni, non del tuo braccino – che hai perso un libro: ma, per fortuna, è sempre con lui che puoi prendertela, anche e soprattutto in assenza.

Del resto, in presenza li incontri di rado. Sono esserini molto elusivi, che vivono nascosti ai margini del nostro mondo – acquattati sui fondali, mimetizzati nella boscaglia, dove vi pare – e ne emergono solo in certi momenti di bassa stagione, per andare a caccia. Se per caso state pensando ai troll – quelli veri, non i despossenti che passano la giornata a ficcare il naso negli Instagram altrui – fuochino. Una certa somiglianza c’è. Non diversamente dai loro progenitori silvani, gli scout vestono come noi, si muovono come noi, parlano come noi: e quando te li trovi davanti, di solito in mezzo a una folla piuttosto rumorosa, non sempre li riconosci. Al terzo o quarto Come sta andando di fila, però, cominci a sospettare dello sconosciuto che ti interroga da dieci minuti con un calice di plastica in mano, e si è persino offerto di andartene a prendere uno. Dal primo sospetto in poi la strada è in discesa, devi solo chiederti se sia un editore, un editor, un agente, uno dei diritti, un art director e così via. Se non è nessuna di queste cose, il cerchio si stringe da solo: è uno scout. E prima o poi – quasi sempre nei periodi fra le fiere, quando si suppone che i giovani talenti escano dagli scantinati per consegnare ai loro angeli custodi le prime ventiquattro pagine del libro esplosivo che di lì a qualche mese sbaraglierà qualsiasi altro – te lo ritrovi al telefono: se non al banco della reception.

Più la seconda, devo dire. In genere gli scout si materializzano in redazione con un preavviso minimo, sostenendo che passavano di lì, manco certe vie anossiche dell’anossicissima Milano fossero la Promenade des Anglais. Se del caso – ma difficile non lo sia, visto che hanno l’accortezza di presentarsi intorno all’ora di pranzo – accettano una quinoa, un poke, o qualsiasi cosa contempli il piè di lista della loro vittima, quasi sempre un editor. Dal quale, appena seduti, vogliono sapere cos’abbia per le mani di caldo.

In un punto qualsiasi di quelle conversazioni, per rimanere al rozzo parallelismo cinematografico in cui ormai mi sono impelagato, potete immaginarli annusare improvvisamente l’aria, in una smorfia non così piacevole a vedersi, e soprattutto gravida di conseguenze. Se le narici gli hanno trasmesso una vibrazione positiva, infatti, lo scout riaccompagna l’editor in ufficio, e con le buone o le cattive gli sottrae qualche pagina – bastano pochissime – del testo che gli è stato descritto davanti alla quinoa. Dopodiché su quella base, per definizione provvisoria, mette in circolo qualcosa di cui sostiene tutta la città stia parlando, e che spera venga scambiato per ciò che ancora assolutamente non è, e neppure è ancora detto diventi: un libro. L’aspetto più allarmante di questa storia non è tuttavia che i troll – voglio dire, gli scout – tentino di vendere, a cifre spesso implausibili, dieci o quindici pagine: è che gli editori, spesso rilanciando sull’offerta di partenza, le comprino. Era appena successo col libro arrivato sul BlackBerry della mia amica, e da lì rimbalzato in almeno una capitale europea, dopo essere stato venduto negli Stati Uniti, mesi prima, allo stato neonatale.

«Ma cos’è?» avevo insistito. A quel punto, volevo saperlo.

«Ti dico, non l’ho letto. Il primo romanzo sulle caste indiane, pare. Per quello ho pensato subito a voi».
Il primo romanzo sulle caste indiane. Chissà in che senso. Era una definizione un po’ scarna. Per saperne di più avrei dovuto leggerne qualche pagina, ma non osavo chiedere. L’ultima volta che, al telefono, avevo mormorato che prima di offrire per un memoir sull’odissea di una boat people vietnamita avrei voluto vedere il testo, la voce dell’agente dall’altra parte del capo si era intirizzita, prima di intirizzire me: nessuno dei tuoi colleghi ha fatto una richiesta del genere, mi aveva detto con un invito nemmeno troppo implicito a tenere la testa ben piantata sulle spalle – e, sottinteso, a imparare una buona volta il mestiere.

All’epoca dei fatti su cui spero di intrattenervi, tuttavia, il tentativo di ottenere il massimo del risultato – cioè, dei quattrini – col minimo sforzo non era il capriccio di qualche eccentrico, bensì quello che ancora non si chiamava un megatrend. Altri esempi coevi? Subito.

Il più sensazionale che ricordi risale a una Francoforte proprio di quegli anni, quando a metà Fiera l’autocratica agenzia di una nostra autrice ci fece pervenire la richiesta di una somma esorbitante per i diritti del suo nuovo romanzo – del quale l’autrice stessa mi aveva detto esistere, alla lettera, circa un terzo del primo capitolo. La richiesta aveva, come si usa, una pezza d’appoggio: un semplice foglio A4 dove comparivano, nell’ordine, il volto sorridente dell’autrice stessa, una sua scheda biobibliografica (necessariamente stringata, visto che parlavamo di una ragazza con due soli titoli all’attivo), più la seguente descrizione del suo work in progress: «Una storia d’amore ai tempi della globalizzazione». Non scherzo. Al piede, annoto solo che la somma non è stata corrisposta. Fortunatamente, visto che a non so più quanti anni di distanza, ma almeno dieci, il romanzo non esiste ancora.

(continua in libreria…)

Fotografia header: Culture Stadium, Fiera del Libro di Francoforte 2018 ( GettyEditorial 16-06-2021)

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