Fa inevitabilmente discutere la pubblicazione postuma di “Diario per John” di Joan Didion. Giusto pubblicarlo o no? Forse, la risposta l’aveva data la stessa scrittrice, parlando delle pubblicazioni postume di Ernest Hemingway… Quella che manca è la dimensione letteraria: la registrazione delle sedute con lo psichiatra Roger MacKinnon può avere sì un valore documentale ma, pur nella sua sincerità, non ha nulla della prosa che ha reso inconfondibile l’autrice di “L’anno del pensiero magico”, nota per l’instancabile lavoro sulla parola e sullo sguardo
Da poco è stato pubblicato in contemporanea mondiale Diario per John, l’attesissimo libro inedito e postumo di Joan Didion. Voce femminile tra le più emblematiche del New Journalism, Didion è stata una delle figure centrali della letteratura americana contemporanea – scrittrice di romanzi, personal essay, articoli e sceneggiature, nonché intellettuale tra le più influenti del nostro tempo.
Poco dopo la sua scomparsa, avvenuta il 23 dicembre 2021, accanto alla sua scrivania è stata ritrovata una cartellina contenente vari documenti, tra cui un fascicolo dattiloscritto di circa centocinquanta pagine in cui Didion aveva trascritto il contenuto delle sedute con Roger MacKinnon, lo psichiatra che l’ha seguita dal 1999 fino almeno al 2012.
L’autrice aveva cominciato questo lavoro di registrazione – che si presenta come una sorta di diario rivolto (quanto meno da un punto di vista formale) al marito, John Gregory Dunne – a partire dalla settima seduta, datata 29 dicembre 1999, fino all’inizio del 2002, ma la maggior parte delle sedute documentate risale all’anno 2000.
Il dattiloscritto – come l’intero archivio Didion-Dunne – è stato donato dagli eredi di Joan Didion alla New York Public Library. Non è stata imposta alcuna restrizione all’accesso e, dato che il documento sarebbe stato liberamente consultabile da chiunque, i fiduciari di Didion (l’agente Lynn Nesbit e le sue due storiche editor Shelley Wanger e Sharon DeLano) hanno deciso di trasformarlo in un libro. Negli Stati Uniti è stato pubblicato da Knopf, che ha acquisito i diritti per una cifra non resa nota, mentre in Italia è uscito per Il Saggiatore (nella traduzione di Sara Reggiani).
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La decisione di Lynn Nesbit e delle due editor di dare alle stampe un documento tanto intimo – contenente dettagli privati sulla vita di Didion e della sua famiglia – ha inevitabilmente sollevato, e continua a sollevare, numerose polemiche.
Le persone a lei vicine parlano di una vera e propria violazione della privacy, convinte che Didion non avrebbe mai acconsentito alla pubblicazione di quel materiale. Altri, invece, sostengono che l’autrice – perfettamente consapevole della propria notorietà – avrebbe potuto prevedere l’inevitabilità, o almeno la possibilità, di una simile operazione editoriale, e che quindi avrebbe dovuto esprimersi in proposito. Cosa che, però, non ha fatto. C’è infine chi interpreta la scelta di rivolgersi al marito – che, come documentato, partecipò ad almeno una delle sedute e non aveva dunque bisogno di essere informato su quanto vi era accaduto – come un segnale che il vero destinatario del testo potesse essere un altro. Un destinatario che resta comunque difficile immaginare come pubblico.
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Didion aveva iniziato a vedere il dottor Roger MacKinnon – definito dal New York Times “uno dei clinici più capaci della sua epoca” – per via di Quintana, la sua unica figlia, adottata nel 1966 e morta a 39 anni, anche lei seguita da uno psichiatra per problemi legati all’alcolismo e alla depressione. Era stata la stessa Quintana a riferire al proprio psichiatra che, secondo lei, anche la madre soffriva di depressione. Come sarebbe emerso nel lavoro con MacKinnon, alla radice dei problemi di Quintana c’era proprio il rapporto con la madre, una relazione intensa e complessa segnata da una sorta di dipendenza reciproca.

Joan Didion nella foto della figlia Quintana Roo Dunne
Dal Diario emerge la paura che Didion ha sempre nutrito di perdere la figlia: un’angoscia mai davvero affrontata, che ha cercato di gestire attraverso una totale dedizione al lavoro, e che anche Quintana doveva aver percepito fin da bambina. Un turbamento radicato nella convinzione di non meritare “cose buone”, che l’ha spinta a esprimere l’amore per la figlia attraverso l’iperprotezione: una preoccupazione costante che, in fondo, serviva a tenere sotto controllo quella stessa paura.
Seduta dopo seduta, Didion è portata a riflettere sull’origine di questo sentimento, che affonda le radici nella sua infanzia, nel rapporto con il padre – anch’egli depresso e tormentato da pensieri suicidi – e nel timore di perderlo, una paura che l’ha accompagnata durante tutta la crescita. A ciò si aggiungeva la difficoltà di spostarsi continuamente da un luogo all’altro, che l’ha sempre fatta sentire una straniera.
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MacKinnon, nelle sue sedute, la invita ripetutamente a distaccarsi dalla figlia, suggerendole di aiutarla non proteggendola, ma dimostrandole semplicemente fiducia, permettendole di crescere e diventare adulta attraverso un allontanamento emotivo sia dalla madre sia dal padre.
Didion ammette la fatica che lei e il marito stanno affrontando a causa della situazione di Quintana, una fatica che impedisce loro di lavorare. Per Didion, il lavoro è sempre stato il modo per gestire la propria ansia, per prendere le distanze da essa. In queste circostanze, le è difficile non provare risentimento nei confronti della figlia. E se il dottore la invita ad accettare l’idea che l’unica cosa che può fare per Quintana è darle fiducia, lasciandole la libertà di prendere le proprie decisioni da adulta, per Joan non è affatto facile ammettere a sé stessa che il suo aiuto non possa fare la differenza.
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Nel percorso analitico, Didion esplora non solo la propria relazione con la famiglia di origine, ma anche quella con il marito, un legame simbiotico che ha sempre fatto sentire Quintana come un’intrusa nella propria casa. Riflette anche sulla vecchiaia, sul senso del suo lavoro e sull’insoddisfazione professionale che viveva in quegli anni, stanca di dedicare gran parte del tempo alle sceneggiature e desiderosa di intraprendere un progetto più personale, qualcosa che per lei avesse un vero significato (“È fondamentale per la sua sopravvivenza”, osserva il dottore). Nel corso dei mesi, Didion impara a riconoscere lo schema che spinge lei e il marito a scaricare tutte le preoccupazioni e le paure su Quintana che, a sua volta, le stimola e le alimenta, perché le fanno sentire di essere amata, «di avere uno scopo nella vita, ossia darvi pace mentale».
L’ultima seduta riportata nel volume – un incontro tutt’altro che confortante suggerito da MacKinnon con lo psichiatra di Quintana – non era stata registrata nel dattiloscritto, ma nel computer di Didion, ed è datata 9 gennaio 2003. Nemmeno un anno dopo, il 30 dicembre 2003, il marito John Gregory Dunne sarebbe morto a causa di un attacco cardiaco, e Quintana l’avrebbe seguito nell’agosto 2005.
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Didion aveva affrontato la perdita del marito e della figlia ne L’anno del pensiero magico (2005) e in Blue Nights (2011) per cui Diario per John potrebbe, sotto certi aspetti, rappresentare una sorta di chiave per meglio comprendere le dinamiche psicologiche alla base di quei lavori. C’è però una distanza a separare questi libri dal Diario, ed è la voce letteraria di Didion, quella voce che l’ha resa unica e che, per uno scrittore, è la sola cosa che conti davvero.
Joan Didion ha scelto di raccontare in vita il suo rapporto con Quintana, con John e persino con sé stessa e le proprie fragilità attraverso un incredibile lavoro sulla lingua, selezionando ogni parola con acutezza e intelligenza perché, come lei stessa diceva, “la scrittura ti costringe a pensare“. Per scrivere Blue Nights, Didion ha dovuto “imparare a gestire le proprie rovine”, prendere le distanze dal sé con enorme difficoltà e un profondo senso di solitudine. Si è costretta a pensare l’impensabile, a guardare il suo dolore da una prospettiva esterna, a trovare un ritmo e un’esattezza acuminata in ogni singola parola. Questo lavoro straordinario di scrittura è stato il suo modo di elaborare il lutto, di trasformare il dolore in letteratura.
È proprio questa dimensione letteraria che invece manca in Diario per John, dove la registrazione delle sedute, pur nella sua sincerità, non ha nulla della prosa che ha reso inconfondibile Didion. Diario per John può avere un valore documentale, ma presentarlo come un “nuovo libro” dell’autrice rischia di sminuire l’instancabile lavoro sulla parola e sullo sguardo che l’ha resa una delle scrittrici più grandi del nostro tempo.
Vale la pena ricordare ciò che Joan Didion scrisse a proposito di Ernest Hemingway in Ultime parole (1998, poi raccolto in Perché scrivo, 2021), in occasione dell’annuncio dell’ennesima pubblicazione postuma dello scrittore: “Quello che seguì [la sua morte] fu la creazione sistematica di un prodotto vendibile, un corpus discreto di opere diverso da quello pubblicato da Hemingway in vita, e che anzi tende a oscurarlo”. Secondo la stessa Didion, queste pubblicazioni postume rappresentano “la negazione del fatto che il lavoro dello scrittore sia creare”, perché “la grammatica stessa di una frase in Hemingway dettava, o era dettata da, un certo modo di guardare il mondo, un modo di guardarlo senza farne parte, un modo di attraversarlo senza attaccarcisi”.
La prosa di Didion – che racconta di aver imparato a scrivere copiando e ricopiando le pagine di Hemingway – condivide lo stesso rigore, la stessa ricerca: nulla è lasciato al caso, ogni frase risponde all’urgenza di osservare e raccontare il mondo da una distanza che le consenta di mantenere il controllo su una materia incandescente, sull’intensità del proprio sentire.
Al di là del dibattito sulla violazione della privacy, non dovrebbe bastare ciò che Didion scrisse su Hemingway a farci riflettere sulla legittimità di questa pubblicazione?