Sophie Blind è un’insegnante, una scrittrice, la madre di tre figli, ed è morta. Mentre era per la strada un taxi l’ha messa sotto e decapitata. Eppure la storia non è finita, anzi, inizia proprio nel momento della sua morte. “Divorzi” di Susan Taubes è un romanzo di viaggi: fisici, tra Budapest, Parigi, New York, Milano, e metafisici, in un Purgatorio irragionevole e caotico. Scritto alla fine degli anni ’60, è un’opera che parla di separazioni e dolore, vita e morte…

C’è una fascinazione verso le persone che commettono il suicidio. Soprattutto se parliamo di scrittori, scrittrici, artisti, se il suicidio è romantico e se arriva in un punto particolare della loro carriera. Quante persone hanno cominciato ad ascoltare Luigi Tenco dopo il suo famoso e tragico suicidio durante il Festival di Sanremo del 1967? Non si guarda con ancora maggiore interesse la produzione artistica di David Foster Wallace alla luce della sua fine tremenda?

Così è successo anche a Susan Taubes, autrice di un unico libro, Divorzi, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti del 1969 (in uscita in Italia da Fazi nella traduzione di Giuseppina Oneto), un romanzo che per lei diventa più che un manifesto: praticamente un testamento. Taubes è ricordata anche per la sua amicizia con la scrittrice Susan Sontag, e per l’epilogo della sua esistenza.

A volte si parla delle vicende personali e delle influenze letterarie perché parlare del testo è davvero difficile. Divorzi è così. È un romanzo sperimentale, letterario, alto e in alcuni momenti irraggiungibile. La sua lingua è asciutta (è stato paragonato anche al più moderno Resoconto di Rachel Cusk), il tono quasi distante, nonostante tutto il libro giri intorno al concetto di identità.

La nostra protagonista e voce narrante è Sophie Blind, un’insegnate e una scrittrice, figlia di uno psicanalista (freudiano), madre di tre figli, che finalmente sta riuscendo a divorziare da suo marito, Ezra Blind, dopo anni di tira e molla.

La loro relazione adesso verrebbe definita come disfunzionale, Ezra Blind un maschio tossico, violento, e lei come emotivamente dipendente. Nell’incipit del romanzo scopriamo che Sophie, la narratrice della storia, è appena morta, decapitata da un taxi.

Da quel momento in poi il libro si tramuta in un vortice frenetico di incontri e immagini. Come quei pensieri che si affacciano alla mente pochi istanti prima di addormentarsi.

Sembrano storie complicatissime, con un passato, una possibilità concreta nel futuro. I personaggi hanno nomi che riconosciamo, ma facce diverse; si comportano tutti in modo strano, anche se il nostro cervello lavora perché ciò che vediamo sia percepito come consequenziale.

Ecco, Divorzi è questa cosa qui. Usare la parola onirico sarebbe riduttivo, perché richiama solo a quel lato romantico del sogno, e meno all’insensatezza, all’indefinitezza di certi incubi assurdi.

L’onirico che qui si manifesta è quello del film Beetlejuice, mescolato con Eternal Sunshine of the Spotless. Mind, con i contorni un’avventura grafica del 1998 iconica per tanti videogiocatori, Grim Fandango, che racconta il giorno del 2 novembre, quando i morti possono tornare nel regno dei vivi per fare loro visita.

Il tutto è guidato una voce femminile dura e schietta, e così ironica da farci continuamente dubitare della sua sincerità. Ci prende continuamente in giro Susan Taubes, e prende in giro se stessa, e gli ebrei, e gli israeliani, e i tedeschi e i ricchi e i poveri.

“I libri erano migliori dei sogni e della vita”, dice Sophie Blind, o Susan Taubes, o il fantasma di entrambe.

Ci sono momenti incredibilmente buffi nei dialoghi dell’oltretomba:

“«Tuo marito si chiama Blind – hai intenzione di tenerti il suo cognome?»”, chiede un tizio a Sophie.
“«Per ricordo», e alza le spalle con un sorriso. «Come di ritorno da una guerra. Anzi, da una disavventura. Sono pur sempre dieci anni dalla mia vita».”

Divorzi di Susan Taubes

Il divorzio di cui parla Taubes è un divorzio dalla vita, da se stessa, una separazione che la definisce in quanto essere umano.

“«Ma è ovvio, separarsi è doloroso, che sia un vecchio straccio, perfino un tumore. Sta nella natura umana amare il proprio tumore.»”, dice Sophie, mentre chiacchiera con Kate Dallas, una sua amica nell’aldilà.

“«Parlando della vecchia psicologia, al complesso dell’ego, al fattore continuità, a tutta quella storia di essere una persona, è assurdo. Certo che credo alla scienza, un adesivo intorno ai neuroni. Garantito. Ma la soluzione chimica non ha niente di interessante, non è dignitosa. O sono una sentimentale senza speranza?».

La risposta di Kate Dallas, un’amica che dice di conoscerla da dieci anni dalla sua morte (una morte che per noi è appena avvenuta) è: “«Sophie, tu sei una squilibrata ».”

Sophie è una squilibrata per tutti, lo è per suo marito Ezra, mentre ancora lei era in vita, per Sosie, la suocera, per gli amanti che ha conosciuto da viva, lo è per altri incontri che fa nell’aldilà, un uomo con degli spioventi baffi da tricheco che le ricorda quanto sia bella, pazza, e quanto le sue dissertazioni filosofiche la facciamo sembrare meno sexy.

Divorzi di Susan Taubes fa volteggiare la testa, fa chiedersi se ci sia persi qualche pagina, dimenticati di qualche personaggio, se ci siano stati errori nel montaggio (o di stampa). Fa questo effetto solo finché non ci si abbandona al tango della morte, finché non ci si fa trascinare dal fluire delle scene, una di seguito all’altra, una più irragionevole dell’altra. In fondo al mare, sulla Broadway a mezzogiorno, in un tribunale, nella casa di Sophie bambina. Bisogna permettere alla memoria di emergere coaticamente: la mamma, la zia Rosa, il padre freudiano, la nonna Olga che le ricorda sempre di pulirsi le unghie e non farsi vedere nuda dal marito, gli amanti, Ivan, Nicholas, Ezra. Viene da domandarsi se quella che sta attraversando Sophie sia davvero la morte, il sogno, o forse una crisi psicotica.

Come sarebbe stato accolto questo libro se fosse stato pubblicato ora e non nel 1969? Come sarebbe stata accolta la sua prosa ironica, la sua ferocia? Cosa sarebbe successo se Susan Taubes non si fosse annegata nell’Oceano due settimane dopo l’uscita, dopo aver letto una recensione negativa?

Non possiamo saperlo.

Possiamo però leggere le recensioni, gli studi, le dissezioni che i critici ne hanno fatto, alla luce della sua morte, forse depredandola del suo reale valore letterario.

“Quando sarò morta sul serio, cari amici, non vi vedrò tutti intorno a me. Troverò una via di uscita, mi riprenderò le braccia e le gambe, la testa e perfino il cuore. Lo troverò, qualsiasi cosa ne abbiate fatto”.

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