Dopo l’impatto mediatico, anche in Italia, della protesta di Greta Thumberg, si aprono diverse strade. Paradossalmente, il post-Greta appare più forte e longevo se togliamo dalla scacchiera proprio il ritratto dell’attivista coraggiosa. Non si tratta soltanto di scongiurare i rischi connessi a idoli “fallibili”, come è successo per Asia Argento con il movimento #metoo. È soprattutto una questione legata alla responsabilità: continuare a legare la narrazione ecologista alla 16enne svedese significherebbe attribuirle responsabilità che, invece, dovremmo abbracciare tutti… – La riflessione di Ilenia Zodiaco

Il volto di Greta Thumberg – sedicenne attivista svedese che ha scatenato l’ondata di proteste studentesche (e non) Fridays for Future – ci è ormai familiare così come i motivi della sua rabbia. 

Dall’agosto del 2018, ogni venerdì, Greta ha iniziato a manifestare davanti al Parlamento del suo Paese, contro l’inefficacia e la mollezza della politica nei confronti dell’emergenza climatica. La sua determinazione ha attirato l’attenzione dei media e ben presto è diventata un simbolo, specialmente dopo il discorso tenuto alla COP24 in Polonia che ha fatto il giro del mondo.

Da quando Greta è stata posta su un piedistallo mediatico, riuscendo a catalizzare le energie degli ambientalisti di tutto il mondo, è anche di contrappasso finita sotto al microscopio della critica, come tutti i leader. In maniera paternalistica è stata derisa la sua giovane età, enfatizzata dalle due trecce che la caratterizzano, e successivamente il suo essere affetta da autismo. 

C’è chi invece legittimamente si è concentrato sui contenuti, come ha fatto Francesco Costa, vicedirettore de Il Post, che ha criticato i bersagli della sua protesta, a suo dire sbagliati, ovvero i governi occidentali. Perché invece oggi i maggiori responsabili del riscaldamento globale sono i paesi in via di sviluppo, gli stessi che storicamente si sono quasi sempre mostrati ostili a tutte le condizioni raggiunte durante le conferenze sul clima (da Kyoto a Parigi).

Prendiamo il caso della Cina: in qualche decennio ha tirato fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone, attraverso politiche aggressive di industrializzazione che non sarebbero mai state approvate dall’ambientalismo contemporaneo che, per motivi ovvi, rende più costoso, lento e selettivo lo sviluppo, mettendo a rischio l’economia delle aree più svantaggiate del mondo. 

Esistono dei forti conflitti per il controllo delle risorse che rendono i vincoli ambientali transnazionali difficili da accettare per alcuni paesi, al di là dell’avido capitalismo occidentale. Ecco perché alcuni ritengono la protesta di Greta poco “pragmatica” o comunque di portata limitata visto che le sue richieste sono rivolte per lo più al primo mondo. La terra, secondo Greta, “viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare ad accumulare un’enorme quantità di profitti (…) per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso”.

In realtà, anche se si deve far fronte al fatto che chiedere un rallentamento alle nazioni in via di sviluppo potrebbe essere problematico oltre che poco etico, la politica occidentale rimane ancora il miglior interlocutore perché ha più peso nelle trattative per stabilire patti intergovernativi, più che mai necessari in una situazione di squilibrio. Per altro se i paesi sviluppati a oggi producono meno inquinamento rispetto ad altri è perché in parte questo inquinamento è stato “appaltato” grazie alla delocalizzazione industriale e allo smaltimento dei rifiuti all’estero. 

Inoltre, se è vero che la maggior parte dei politici hanno effettivamente agito a favore dell’ambiente nonostante il disinteresse dell’opinione pubblica, è stato comunque insufficiente. E proprio per questo motivo alzare la voce e pretendere credito e credibilità popolare è più che mai importante. 

Dopo il terremoto Greta, però, si aprono diverse strade. Paradossalmente, il post-Greta appare più forte e longevo se togliamo dalla scacchiera proprio il ritratto dell’attivista coraggiosa. Perseverare nell’assegnare all’operato di uno il successo di un progetto è ingiusto, oltre che potenzialmente dannoso. La cultura individualista continua a proporci degli eroi da seguire ma proprio dall’ambientalismo (con la sua dose di anticapitalismo e cooperativismo) dovremmo aspettarci di più, dovremmo essere in grado di vedere una leadership diversa, più diffusa, internazionale e organizzata.

Non si tratta soltanto di scongiurare i rischi connessi a idoli “fallibili” come è successo per Asia Argento con il movimento #metoo. È soprattutto una questione legata alla responsabilità: più che mai oggi si tende a cercare soluzioni private e individuali a questioni più grandi che richiedono collaborazioni di lungo corso e cambiamenti drastici. Continuare a legare la narrazione ecologista a Greta significherebbe attribuirle responsabilità che invece dovremmo abbracciare tutti. 

È anche vero, però, che il post-Greta si potrebbe caratterizzare per altri conflitti, finora rimasti estranei al dibattito pubblico. Infatti negare il cambiamento climatico non è l’unico modo per contrastare i movimenti ecologisti. C’è un’altra frangia che s’inserirà – in maniera sempre più preponderante – all’interno della questione climatica ovvero chi riconosce che l’ecosistema per come lo conosciamo collasserà, indipendentemente dai nostri sforzi (pochi e insufficienti), ma rimane comunque fiducioso sulle capacità di adattamento dell’uomo. La Terra quindi diventerà un luogo ostile ma l’Uomo, grazie alla Tecnica, sopravviverà. Questa sorta di Nuovo Umanesimo – che viene associato al concetto di deep adaptation – è comunque un altro modo di pensare al futuro che animerà sicuramente lo scenario del post-Greta. 

L’AUTRICE – Qui tutti gli articoli e le recensioni di Ilenia Zodiaco per ilLibraio.it

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