Torna in una nuova traduzione, a cura di Carmen Gallo, il poemetto di T. S. Eliot (26 settembre 1888 – 4 gennaio 1965), un testo stratificato e complesso. La terra desolata si è fatta devastata. E il commento finale della curatrice offre interpretazioni e chiavi di lettura convincenti per un’opera che non ha mai smesso di generare riletture sempre nuove – L’approfondimento
In una sera qualsiasi d’autunno, intorno agli Sessanta dell’Ottocento, si vede una barca sporca, incrostata dalla melma che ricopre il fiume, su un Tamigi inquinato. Nella barca un uomo dai capelli grigi arruffati e una ragazza di diciannove o vent’anni. Sembrerebbero due pescatori: ma non lo sono. O forse sì, ma non di pesci: ripescano, per campare, cadaveri dal Tamigi. È l’incipit di Il nostro comune amico (1865), ultimo romanzo compiuto di Charles Dickens; su questo stesso fiume sporco, che trasuda “olio e catrame”, inquinato da “bottiglie vuote, carte da sandwich, / fazzoletti di seta, scatole di cartone, cicche di sigaretta”, circa sessant’anni dopo vediamo ancora un uomo che pesca, dietro il gasometro, una sera d’inverno, mentre un ratto s’insinua lento nel fogliame, un uomo che medita sul “naufragio del re mio fratello” – e intanto una dattilografa (che potrebbe chiamarsi Carla, come la ragazza di Pagliarani) riceve carezze “che non sono respinte, anche se indesiderate”, da un giovane impiegato pustoloso che prende la sua “indifferenza come benvenuto”.
Stesso Tamigi di Dickens, secolo diverso: ma qui siamo nella Wasteland di T.S. Eliot e l’anno è il 1922. A scorrere dall’uno all’altro è rimasta solo l’acqua inquinata e i cadaveri che continuano a essere ripescati lì, disseppelliti qui (e il paragone non è dopotutto fuori luogo se in una prima redazione del poemetto il titolo delle prime due sezioni era proprio una frase tratta dal Nostro comune amico).
La wasteland di Eliot è dunque una terra in cui l’acqua non è semplicemente sporca, ma è inquinata (e da lungo tempo, almeno da quella sera d’autunno intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento), è waste, d’altronde è anche l’immondizia, è lo spreco, è lo scarto, sono i rifiuti.
Una terra dell’immondizia? Anche. Ed ecco che sembra particolarmente felice, allora, la scelta di ritradurre, finalmente, quest’opera con un titolo nuovo: nella nuova edizione appena pubblicata dal Saggiatore, a cura di Carmen Gallo, la terra desolata si è fatta devastata: che appunto interpreta meglio il percorso storico, la qualità anche man-made di quella terra, il clima postbellico, e la devastazione metropolitana – è, insomma, una traduzione migliore.
E il titolo nuovo (su cui già Franco Buffoni era convincentemente intervenuto una decina d’anni fa su Nazione Indiana) non è l’unico merito di questa edizione: alcune rese traduttive sono particolarmente felici, soprattutto il tentativo di riportare sulla pagine alcune simmetrie sonore e ritmiche senza viziare il senso del testo o la precisione lessicale e semantica – è il caso, per esempio, di rime e assonanze che troviamo talvolta nella posizione per così dire “sbagliata” rispetto al testo originale, per riprodurre, appunto, una certa atmosfera ritmica e ottenere al contempo una resa molto vicina e fedele al testo di partenza. Si tratta, d’altronde, di una traduzione guidata da una profonda consapevolezza storico-letteraria e un preciso percorso interpretativo, delineato da Gallo nell’introduzione al testo, ma soprattutto nelle Note finali, che offrono al lettore una guida dettagliata per orientarsi in un testo così stratificato e complesso. Più che di note si dovrebbe parlare, infatti, di vero e proprio commento – genere tristemente così poco praticato in questi tempi di valutazione ministeriale della ricerca e che invece è uno strumento indispensabile. Quello di Carmen Gallo è appunto un commento aggiornato, in grado di non perdersi nella ridda e nell’affollamento dei riferimenti intertestuali e offrire interpretazioni e chiavi di lettura convincenti per un’opera che non ha mai smesso di generare riletture sempre nuove.
Torniamo, per un attimo, alla dattilografa che potrebbe pure chiamarsi Carla (e che dorme sul divano, come la madre di quell’altra dattilografa all’ombra del Duomo). Come mette bene in luce Gallo, è solo una delle tantissime figure femminili che affollano il poemetto di Eliot: poco prima abbiamo incontrato Filomela, la donna atenese stuprata dal cognato Tereo, che le taglia la lingua perché non racconti la violenza subita, e la tiene segregata in un casolare tra i boschi.
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Sulla riva del fiume ninfe-prostitute, annegata nel fiume Ofelia (in compagnia di Cleopatra e Didone), in un pub in orario di chiusura una donna proletaria, quasi morta di parto con cinque figli e un aborto alle spalle e poca voglia di farne ancora (“Però se poi Albert se ne scappa, non dire che non lo sapevi”).
Sono tutte donne per lo più accumunate da una sproporzione del desiderio: che sia il proprio, che conduce alla morte, al suicidio, alla follia; che sia quello altrui, che si subisce con la legittimazione o l’indifferenza della società. Questo della presenza delle figure femminili (che Gallo cataloga in due filoni principali: quello lussurioso e quello dell’incomprensione/violazione) è uno degli aspetti su cui si concentrano maggiormente le Note finali. Insieme a seguire e ricostruire la proliferazione dei significati del poemetto, il commento di Gallo si focalizza, poi, con particolare attenzione soprattutto su due direttrici principali.
Torniamo ancora una volta sul Tamigi, in quella sera d’autunno: ai morti non è dato riposo, i cadaveri vengono ripescati dal fiume. Così insistentemente torna nella Terra devastata il tema della mancata sepoltura, con tutte le questioni antropologiche che ne discendono, ma anche con un importante sottotesto storico: ricorda, infatti, Gallo che la sepoltura e il disseppellimento dei cadaveri è quanto era accaduto durante la catastrofica campagna di Gallipoli, nei Dardanelli, organizzata dall’Intesa contro l’Impero ottomano a partire dal febbraio 1915; nel maggio dello stesso anno si dovette chiedere una tregua di qualche ora per seppellire i cadaveri – e fra quei morti c’era anche Jean Verdenal, uomo molto caro a Eliot.
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Proprio a partire da questo primo tema (La sepoltura dei morti è il titolo della prima sezione del poemetto) si sviluppano una serie di variazioni, simboli e implicazioni culturali che fanno da impalcatura all’intera opera. L’interpretazione proposta da Gallo, infatti, mette costantemente in relazione i vari riferimenti alle guerre puniche e alla prima guerra mondiale, ricordando un (allora) famoso testo di Keynes, Le conseguenze economiche della pace (1919), in cui si poteva leggere che il trattato di Versailles, e la pace che ne conseguì (chiamata emblematicamente ‘cartaginese’), rischiava di trasformare in una terra devastata la Germania, prima, e l’intera Europa a seguire, salvo rivedere le condizioni di pace. Non a caso costantemente si sovrappongono tema bellico e tema economico (con i pendolari che lavorano nella City, il distretto finanziario, descritti come torbe di dannati danteschi) che spiega, in una certa misura, anche l’invocazione finale alla pace, rivalutando, così, oltra alla dimensione metafisica, l’importanza tutta politica di questo poemetto: “L’insistenza finale sulla pace – scrive Gallo – può essere collegata all’instabilità politica lasciata dalla guerra, e al timore che la pace cartaginese del trattato di Versailles impedisca all’Europa di rinascere dalle macerie del conflitto. In questo modo l’Occidente sarebbe condannato a diventare una waste land perché incapace di redimersi dagli abomini commessi. Shantih più che risolvere in una dimensione spirituale le contraddizioni e la violenza del poemetto sottolinea che il presente non è un tempo di pace, perché in realtà non ha smesso di fare i conti con la guerra da poco conclusa, e soprattutto con le conseguenze economiche e l’insensatezza dei suoi costi umani”.