A 100 anni dalla nascita dello scrittore, Ernesto Ferrero ha dedicato un libro a Calvino, scrittore che lascia programmaticamente aperto il proprio enigma: “Italo”, come spiega su ilLibraio.it Mario Baudino, è una biografia critica, costruita su notizie di prima mano, usate con parsimonia. È infatti questa la chiave del volume: all’autore interessa non tanto un ritratto di scrittore, quanto l’enigma dello scrittore stesso, fatto di vita, sì, ma soprattutto di libri…

Italo Calvino, scrive Ernesto Ferrero nel libro che gli ha dedicato per Einaudi (il titolo, semplicemente Italo, ha anche una valenza simbolica e interpretativa), “finge di giocare anche quando parla sul serio”. E non si è trattato, per tutta la vita dello scrittore (1923 – 1985) di una “difesa”, ma di una “strategia del depistaggio”.

Chiedersi chi era veramente è un’impresa forse votata allo scacco, ma che ci consente di rileggerlo e di riviverlo, di andare forse oltre la “punta dell’iceberg”, oltre il personaggio “timido e impacciato” che ha spesso amato rappresentare, un sartriano “idiota di famiglia”, “non competitivo, poco portato alle attività pratiche e sportive, alla vita di relazione, che si sottrae ai compiacimenti narcisistici dell’Io e alle sdolcinature dei sentimentalismi”: uno scrittore che lascia programmaticamente aperto il proprio enigma.

Ernesto Ferrero Italo Calvino Einaudi

Ernesto Ferrero, che non solo lo ha frequentato per lunghissimi anni, come collega einaudiano e come amico (Calvino fu, editorialmente parlando, il suo maestro) mette in campo anche lui, raccontandolo, una particolare strategia: quella del memorialista che si interroga implicitamente sui propri ricordi in un rapporto di distanza e vicinanza col proprio soggetto; come fa il suo bibliotecario di Napoleone – in cui certamente ha rispecchiato molto di sé come scrittore – nel romanzo N., premio Strega del 2000. E Italo si collega strettamente, a maggior ragione, ai libri di esplicita e dichiarata memoria, da I migliori anni della nostra vita a Album di famiglia.

Lo si direbbe ideale compimento di una trilogia. È una biografia critica, che usa i libri, le lettere, gli scritti dell’autore in rapporto all’uomo, a quel misterioso “Italo” appunto che come uno scoiattolo della penna (definizione di Cesare Pavese a proposito del Sentiero dei nidi di ragno) non era mai dove si pensava che fosse, scartava velocissimo, era fisicamente e intellettualmente sempre in qualche inaspettato altrove: anche nella vita quotidiana.

Ferrero non cede alle tentazioni dell’aneddotica – della quale sarebbe di per sé il meglio fornito di quanti in quest’anno del centenario abbiano scritto su Calvino – ma non trascura l’aspetto biografico e caratteriale.

C’è l’Italo degli anni di Sanremo, travolto dal vitalismo anche autoritario di Mario, il debordante padre, il grande botanico, al cospetto del quale preferisce tacere per trovare rifugio nella parola scritta: anzi, in un appunto del 1970 collega esplicitamente il suo mutismo che doveva essere addirittura leggendario a scuola e con gli amici, “alle nevrosi create dall’autoritarismo genitoriale”.

C’è l’Italo che trova la felicità nel disegnare (e nel ’40 vince per il settimanale “Bertoldo” il premio per la vignetta “più stupida” dell’anno. C’è quello che si diverte   a sbertucciare la generazione precedente, inventandosi un «vecchio proverbio portoghese»: «Chi natali ebbe a Santiago de las Vegas/ di Vincenzo Cardarelli se ne fregas».

C’è infine quello, antifascista (in una famiglia di antifascisti e fieri anticlericali) che esibisce protervamente la goffaggine, per esempio alle adunate del sabato dove si marciava con un moschetto di legno, e lui, come ricorda Eugenio Scalfari, compagno di banco al Liceo di Sanremo, era sempre l’unico fuori passo e fuori tempo.

Questa cifra (timidezza, balbuzie, una certa trascuratezza) resterà negli anni, e alimentò leggende: per esempio quella, poco nota, che sembra un racconto dei suoi. Ormai dirigente Einaudi, a Torino, si dotò infatti una fiammante Giulietta sprint velocissima “per andare con le ragazze”; ma guidava malissimo, fra lo spasso e la preoccupazione dei colleghi.

Inoltre, testimonianza di Carlo Fruttero, scortecciava implacabile, con disastrose manovre di parcheggio, gli ippocastani di Corso Re Umberto, accanto alla sede dell’Einaudi (le ragazze non sono però una vanteria, esistono davvero, anche se le loro fattezze si sono perse in una nebbia lontana).

Calvino veste sì maluccio (poi migliorerà notevolmente) e non è neppure troppo simpatico, almeno a prima vista, ma è un seduttore intellettuale. Sempre secondo Fruttero, l’unico lusso che si concedeva a Torino, lui lavoratore accanito e impegnatissimo, era proprio una “dolce e imbarazzante bigamia”.

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Non erano grandi amori, anzi si trattava di relazione rigorosamente a termine, come del resto affiora dalle opere (per esempio in La speculazione edilizia, dove Ferrero ravvisa nel protagonista il suo alter ego). Nel ’54 irruppe nella sua vita l’attrice Elisa de Giorgi, bella, ricca, colta e circondata dal meglio degli artisti e degli scrittori italiani; e tutto sembra cambia. È una relazione ad alta intensità, con Calvino che scrive lettere d’amore liriche e travolgente (sono depositate nell’archivio manoscritti dell’Università di Pavia, ma non pubblicabili per volontà degli eredi); e che produce il noto e un po’ boccaccesco episodio, l’unica scena madre nella vita dello scoiattolo, consistente nell’irruzione all’Einaudi da parte di lei armata forse di pistola.

“Nasce una leggenda che in casa editrice viene comunemente accettata con un mezzo sorriso – scrive (con un mezzo sorriso anche lui) Ferrero -: Elsa che insegue Italo per mezza Italia e poi piomba a Torino portando nella borsetta una piccola pistola con il manico di madreperla, che forse è soltanto un accendino. Einaudi, divertitissimo da questo coup de théâtre da commedia degli equivoci, si ritiene in obbligo di avvertire il questore, o almeno così racconta”. In altre parole, non accade un bel nulla. Ma una sentenza era stata già pronunciata a da Anna Magnani, amicissima della De Giorgi, che aveva formulato al proposito un giudizio spietatissimo e definitivo: “Il tuo Calvino? È una siringhetta de veleno”.

Lo accusava di un peccato d’intelligenza, e forse non aveva neppure torto. Italo, però, mutava continuamente, nella vita come negli scritti. Era già pronto per la grande svolta, che avvenne nel ’62 con la comparsa in scena di “Chichita”, ovvero Esther Judith Singer (la Ludmilla di Se una notte d’inverno un viaggiatore): lo sposò e gli cambiò la vita; e forse lo aiutò in modo decisivo a costruire la sua fortezza di parole, la sua città “invisibile”.

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La lettura che fa di questi episodi sentimentali e non certo secondari Ernesto Ferrero è in qualche modo parallela a quella sulla più nota vicenda politica, la militanza nel Pci, la grande delusione e l’allontanamento dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria; ma anche il rapporto sempre distante, se pure attento, con i miti della sinistra. Perplesso per quanto riguardò il ’68, lui che non credeva più alle rivoluzioni in quanto tali, fu deluso, udite udite, proprio da Fidel Castro, così adorato da scrittori e intellettuali europei e americani.

Lo trovò, al di là dei giudizi sulla rivoluzione, immensamente noioso, quando nel 1964 andò a Cuba (dov’era nato, quando padre e madre dirigevano una stazione agricola sperimentale) per sposarsi con Chichita, e venne ricevuto dal Líder Máximo in un capannone fuori mano, tra barocche misure di sicurezza. Si beccò, secondo Chichita, “due ore di sproloqui populisti, tirate pedagogiche e vanterie”, che “sembravano il doppio per la noia e la fasullaggine”.

Ferrero ha notizie di prima mano, ma le usa con parsimonia. È infatti questa la chiave del libro: a lui interessa qui non tanto un ritratto di scrittore, quanto l’enigma dello scrittore stesso, fatto di vita, sì, ma soprattutto di libri; fino alla conclusione, alla sfida beffarda che scorge nei suoi ultimi anni, “quando guardava il mondo da una prospettiva di millenni”.

Così, “improvvisamente ha guardato negli occhi i suoi lettori e ha detto con voce chiara e netta: cercate pure dentro di me, non troverete nulla”. Va da sé che in quel “nulla” c’è la grande opera, nata anche dalla sparizione – in essa – dell’autore. Come se il Calvino, strenuo illuminista, si fosse ritrovato infine in un gesto assoluto e metafisico.

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