Enrico Brizzi, acclamato autore di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, torna in libreria con “La primavera perfetta”. E per l’occasione si racconta a tutto campo con ilLibraio.it. Nell’intervista, parla della sua idea di narrativa (“Il mio mestiere è una passione che praticavo gratis e che ho avuto la fortuna di poter trasformare in lavoro. Per questo sento l’obbligo di difendere la sua autenticità”) e del suo amore per il camminare e per il viaggio a piedi, a cui ha dedicato diversi libri: “Mi risulterebbe impossibile raccontare protagonisti idealizzati. Ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, è capace di atti sublimi e di atti riprovevoli e, quando si è in difficoltà, si è più propensi a giustificarsi se ci si trova a compiere atti orribili. Non è certo una morale rassicurante, ma comportarsi in maniera virtuosa è più semplice quando le cose vanno bene”. Per lo scrittore bolognese “ogni viaggio ha tre grandi momenti. Il momento in cui lo sogni e lo progetti, il momento in cui lo svolgi effettivamente, e poi viene la terza fase, quella del ricordo. È emozionante partire senza avere la minima idea se ne verrà fuori un libro, un racconto di tre pagine, un romanzo che ti terrà occupato per due anni…”

Enrico Brizzi torna in libreria con La primavera perfetta (HarperCollins Italia, 2021), romanzo che racconta l’ascesa e la rovinosa caduta di un uomo normale, il suo divorzio, l’amore che nutre per i figli e il rapporto tormentato con il fratello, ciclista monastico di cui è manager. Con lo stile veloce, ironico e dolente a cui ha abituato i lettori, Brizzi immerge il suo protagonista, Luca Fanti, un novello Giobbe i cui guai non derivano da una sfida tra Satana e Dio, bensì da una sequela di pessime idee, in una Milano che da terra scintillante di promesse diventa plumbea e inospitale, gorgo che risucchia in vizi e in avvocati ogni centesimo racimolato.

Abbiamo intervistato Enrico Brizzi in occasione dell’uscita del romanzo, per parlare con lui di scrittura e narrativa ma anche di una passione che l’autore porta avanti da tutta la vita: il viaggio a piedi, a cui ha dedicato diversi libri (ricordiamo tra i vari Il sogno del drago, Ponte alle Grazie 2017, e L’estate del gigante, Ponte alle Grazie 2020).

Enrico Brizzi, La primavera perfetta, HarperCollins

La primavera perfetta può essere anche letta come una storia di formazione, nonostante l’età del protagonista sia decisamente fuori tempo?
“Se accettiamo l’idea che nella vita si continui sempre a imparare (o che sarebbe auspicabile fosse così), sì. Quando però si parla tecnicamente di ‘romanzo di formazione’ ci si riferisce a una definizione più stretta, quella che gli sceneggiatori delle serie tv chiamano coming of age. In questo caso, invece, si parla di un uomo maturo, ma quanto gli accade cambia le sue prospettive, quindi, in senso più generale, è una vicenda di apprendimento. È una storia di formazione come può esserlo l’Odissea: quella di Luca Fanti è un’Odissea senza maghe in grado di trasformare gli uomini in maiali o isole dei Lotofagi, ma di fatto si tratta pur sempre di un viaggio”.

Raccontando la storia di Luca Fanti, ne accoglie tutte le contraddizioni e le miserie. Cosa significa per lei raccontare la complessità?
“Credo sia la base, nella disciplina del romanzo realistico. Ovviamente si possono scrivere romanzi di genere diverso, per quanto riguarda però i romanzi che hanno più attinenza con la realtà, mi risulterebbe impossibile raccontare protagonisti idealizzati. Ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, è capace di atti sublimi e di atti riprovevoli e, quando si è in difficoltà, si è più propensi a giustificarsi se ci si trova a compiere atti orribili. Non è certo una morale rassicurante, ma comportarsi in maniera virtuosa è più semplice quando le cose vanno bene. Basti pensare ai racconti dei tempi di guerra dei nostri nonni: certo che è orribile rubare, o considerare un gattino la tua cena e non un fedele compagno che ti fa le fusa. Ma se hai fame, e magari hai a casa dei bambini che hanno fame, valgono le stesse regole sul non rubare e sul non mangiare i gatti a cui ti atterresti se va tutto bene? Sappiamo che non è così”.

E Luca Fanti, in un certo senso, è in guerra.
“La sua è la storia di una caduta e una risalita. Credo che i libri di narrativa non debbano avere una morale facile. Per quanto riguarda Luca Fanti, non è che sia esattamente un filosofo, i suoi principi, i suoi obiettivi e i suoi desideri sono molto semplici: vuole stare bene, spera che suo fratello vinca le gare, spera che i suoi genitori non gli rompano le scatole con le ansie tipiche delle persone ormai anziane, spera che i suoi figli non abbiano problemi… E man mano che scivola nella voragine in cui si trova inghiottito, affronta una situazione complessa con una faciloneria che peggiora le cose, perché combina un guaio dopo l’altro e non è abbastanza scaltro dal trovare la soluzione migliore, o dall’evitarsi guai peggiori, e così si infila in una situazione sempre più compromessa. Persone del genere sono da condannare o da comprendere e perdonare? Ognuno di noi si sente tendenzialmente portato verso l’empatia se in questa situazione si trova una persona amica. Credo sia per questo che il lettore tifa per Luca Fanti, non perché sia un maître à penser, ma semplicemente perché ha qualcosa di umano che riguarda tutti noi: l’istinto di sopravvivenza che, quando le cose vanno male, ti porta a non lasciarti andare completamente ma a salvare il salvabile”.

Come mai, per la vicenda di questo romanzo, ha scelto proprio Milano?
“Milano è la città, in Italia, in cui è più semplice che un certo tipo di sogno, di progettualità, si trasformi in realtà. Luca, voleva aprire un’agenzia di comunicazione e a Bologna con un’agenzia di comunicazione hai determinate prospettive, mentre a Milano ne hai altre. Per quanto riguarda il mondo del ciclismo, è più facile gestire le cose da lì che da un qualsiasi altro punto d’Italia. Non per tutti è necessario andare a Milano, naturalmente, ma, per quanto mi riguarda, il mio passato è fatto di viaggi in interregionale Bologna-Milano da ventiduemila lire con lo zainetto in spalla, perché le riunioni delle case editrici erano lì, i lanci dei libri avvenivano lì e, ancora prima dell’uscita di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, la mia prima collaborazione giornalistica è stata con una testata milanese. È stata anche la città in cui viveva una parte della mia famiglia: credo di essere stato uno dei pochi bambini d’Italia ad andare in vacanza a Milano. Per me era l’occasione di stare con le mie cugine e, invece di giocare ai cowboy nei cortili e negli orti, si giocava agli agenti segreti sui tetti-lavatoi dei palazzi”.

Per raccontare i figli di Luca ha guardato alla sua esperienza di padre e alle sue figlie?
“Una delle cose belle di avere più anni – o di invecchiare, in base a come si voglia pensarla – è che si allarga l’angolo di osservazione. A diciassette anni conosci soltanto la vita dei diciassettenni, che può essere una benedizione, ma ti rende impossibile raccontare un altro genere di storie. Mentre alla mia età si ha la fortuna di poter guardare alla generazione prima, alla propria e a quella dopo. Non serve nemmeno avere dei figli, basta avere dei nipoti, o degli amici che hanno dei figli, per sapere che i ragazzini usano parole incomprensibili. E ovviamente il primo istinto è quello conservatore di dire: ‘Ma come parlano questi?’; ma se hai una discreta memoria ti ricordi che i più grandi dicevano le stesse cose a te trent’anni fa. Cambiano le mode, cambiano i linguaggi e i gerghi, ma non cambia l’umanità delle persone. Una ragazzina come Gaia [la figlia del protagonista di Una primavera perfetta, Luca Fanti, NdR] attraversa un grande dolore, che non è tanto quello della separazione dei suoi genitori, quanto del vederli litigare, vederli in conflitto. E questo sentimento sarebbe stato identico anche trent’anni fa, con parole diverse, ma con un cuore uguale”.

Guardando alla sua narrativa, quanto trasfigura di sé e della sua esperienza nelle vicende e nei personaggi che racconta?
“Credo che certe cose si facciano a livello conscio e altre, invece, quando sei preso dal flow della scrittura, non sottostiano a calcoli di base: l’aspetto affascinante dell’artigianato della scrittura è che le scalette sono fatte per essere sovvertite. Esattamente come quando vai a camminare per giorni: devi avere una tabella di marcia, altrimenti rischi di vagare come un matto senza arrivare mai alla meta, ma la tabella di marcia è fatta per essere aggiustata giorno dopo giorno, perché magari cambia il tempo e non puoi fare il passaggio esposto in montagna che ti eri prefissato ma devi trovare una variante più bassa. Da dove vengono scene che si creano in modo imprevisto mentre stai scrivendo? Dalla tua esperienza personale? Dal racconto del tuo migliore amico? Da un incubo? Per rispondere con una frase che le mie figlie chiamerebbero ‘frase Tumblr’ e noi avremmo chiamato ‘frase da Smemoranda’, spero che i miei romanzi siano autobiografici dove ‘auto’ non si riferisce a me, Enrico Brizzi, ma siano autobiografie collettive. Nelle mie storie entrano allo stesso modo le mie vicende personali, le storie che mi raccontano gli amici a cena, le storie di persone che magari non conosco di persona ma mi scrivono via email, o attraverso i social, per raccontarmele senza che io gliele abbia chieste. E questo è un dono. A me non interessa raccontare la vita di Enrico Brizzi, mi interessa raccontare la vita della generazione di Enrico Brizzi”.

Lei ha scritto anche diversi libri di viaggio. Come nasce la sua passione per il viaggio a piedi, per il camminare?
“Credo da mia madre, che era una grande appassionata e mi ha fatto respirare il bisogno di stare all’aria aperta fin da piccolo. Poi ho continuato negli anni, prima facendo lo scout, poi con il classico viaggio dopo l’esame di maturità. C’è chi va con i compagni in Grecia o a Ibiza, chi ad Amsterdam, mentre per me la figata massima è stata andare in bicicletta a Vienna. Insomma, è sempre stato un aspetto presente nella mia vita. Poi, in un momento preciso, ho capito che potevo anche scriverne”.

Quando?
“Dalla pubblicazione di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, per i dieci anni successivi ho scritto di slancio, con una storia dopo l’altra a cui stare dietro. Mentre per la prima e per fortuna – a oggi – ultima volta, a trent’anni ho avuto un momento di vertigine, in cui mi sono reso conto che la storia che stavo scrivendo mi faceva schifo. È stato un shock, a cui ho risposto spegnendo il computer, riempiendo lo zaino e partendo per un viaggio a piedi con mio fratello. Siamo andati dal Tirreno all’Adriatico e mi sono reso conto che i viaggi a piedi possono essere raccontati. Tornato a casa ho buttato il testo a cui stavo lavorando e ho scritto e poi pubblicato la storia di quel viaggio, Nessuno lo saprà (Mondadori, 2005)”.

Viaggia tanto a piedi ma anche in bici. Sono due lentezze diverse che vanno nella stessa direzione emotiva e mentale. Quale può essere il punto di incontro tra queste due discipline?
“Ti portano in posti diversi, perché a piedi si possono affrontare anche tratti in cui ci si arrampica con le mani, magari in montagna o nei boschi, in bicicletta lo scenario è diverso, ma consente di fare più chilometri e, quindi, per fare un viaggio lungo è più adatta. Però, per quanto mi riguarda, sono due dimensioni sorelle e i tratti in comune sono il fatto di provare la meraviglia, di veder diventare reali posti che sulle carte geografiche sono soltanto promettenti inviti. E a questo si aggiunge ciò che sulle carte geografiche non si vede: le voci e i volti delle persone che incontri arrivando come forestiero. È una condizione ideale per… userei un’altra parola da sceneggiatori milanesi: è una condizione ideale per lo storytelling. Perché le persone, a te viandante o cicloturista mai visto prima, sono capaci di raccontare storie che certo non racconterebbero al bar centrale del paese. Finisci a cenare a casa di gente sconosciuta in provincia di Avellino, a dormire dai monaci al confine tra il Canton Vallese e la Valle D’Aosta, o a parlare con una ex attrice olandese che si è trasferita a vivere nel Sud della Francia ed è diventata pittrice. E questo non sarebbe possibile se arrivassi in quegli stessi luoghi sgommando in automobile. Le persone ti vedono in maniera speciale e, passato il primo momento di diffidenza, sono più inclini ad aprirsi”.

Le sembra che i camminatori diano ai territori che attraversano qualcosa di più, o comunque di diverso, rispetto al turista “tradizionale” che consuma e poi va via?
“Il primo punto da chiarire è che anche il cicloturista o il viandante consumano: non sono un disturbo per il territorio, ma un’opportunità di sviluppo anche turistico. Il cammino di Santiago attraversa zone un tempo depresse dal punto di vista economico, ma, con il passaggio di 350.000 persone all’anno, i paesi e le cittadine risorgono. Ed è quello che stiamo vedendo anche in Italia, in alcuni punti della via Francigena. Certo, Siena non ha nessun bisogno di turisti in più, però il paesino della Val d’Orcia o della provincia di Viterbo ne ha bisogno eccome. Anche chi viaggia in maniera naturale restituisce qualcosa di materiale al territorio: deve dormire, deve mangiare, magari si è rotto lo spallaccio dello zaino e ha bisogno di un negozio… Dopodiché, in un senso più ideale, io sono cresciuto a Bologna, e l’Emilia è l’unica regione d’Italia ad avere il nome di una via: il passaggio di forestieri per me è un arricchimento per il territorio, apre la mente, rende le persone più empatiche e più inclini alla diversità. Chi vive sempre nella stessa comunità, con le stesse famiglie che si conoscono dal Medioevo, per forza di cose fa più fatica a essere aperto mentalmente, perché la sua prospettiva è univoca. Mentre, da una parte il viaggiare in prima persona e dall’altra l’essere abituato a vedere un continuo passaggio abituano a considerare che non tutti sono uguali a te, e che questo non significa che siano migliori o peggiori”.

Parliamo del camminare come oggetto di scrittura. Che importanza ha questa parte della sua attività di narratore?
“Cerco sempre di partire appena ho consegnato un libro nuovo. Uno scrittore non è qualcuno che salva il mondo, è semplicemente una persona che racconta delle storie e si occupa di una forma che per certi versi è arte e per altri è artigianato. Passi dei mesi in cui i tuoi unici compagni sono i punti e virgola, il ritmo delle frasi, e arriva un momento in cui sei diventato tutt’uno con la sedia e lo schermo del computer. Allora partire è come tornare a vivere, è ricordarsi di possedere anche delle gambe, oltre a delle dita che battono sulla tastiera. Trovo molto bello il rapporto stagionale della scrittura, che cerco di contenere tra l’autunno e l’inverno, e dei viaggi, che cerco di concentrare, brevi o lunghi che siano, nella buona stagione”.

Quando parte per un viaggio sa già che ne scriverà?
“Ogni viaggio ha tre grandi momenti. Il momento in cui lo sogni e lo progetti, il momento in cui lo svolgi effettivamente e in cui sei una creatura meravigliosamente analfabeta, e poi viene la terza fase, quella del ricordo. Ma quando parto non so mai se ne nascerà un libro. Uno dei viaggi che mi ha colpito di più è stato quello fatto nel 2008, da Roma a Gerusalemme”.

Racconti.
“Sono partito a piedi verso Brindisi e da lì ho preso una barca a vela auto-costruita da un mio amico – una cosa oggettivamente un po’ pericolosa, a mia madre non l’ho raccontato altrimenti non avrebbe dormito per un mese – per provare a muoverci come nel Medioevo. E una volta sbarcati siamo andati di nuovo a piedi fino a Gerusalemme. Questo viaggio mi ha sconvolto: ci trovavamo nella culla di tutte le storie che mi raccontavano da piccolo, in una terra impastata di dolore, dove ognuno ha avuto perdite reali, in famiglia, tra gli amici. Eppure questa esperienza mi ha turbato per dieci anni senza riuscire a prendere parola, finché non ho scritto Il diavolo in Terra Santa, che è uscito per Mondadori nel 2019. Dopo altri viaggi, invece, ho cominciato a scrivere nell’istante in cui sono arrivato a casa. Altri ancora non hanno mai prodotto niente di narrativo. In generale sono più i viaggi che ho fatto dei libri di viaggio che ho scritto. È emozionante anche questo: partire senza avere la minima idea se ne verrà fuori un libro, un racconto di tre pagine, un romanzo che ti terrà occupato per due anni…”.

Lei è uno scrittore prolifico e scrive anche romanzi molto corposi. Quanto di quello che scrive risponde a scelte ponderate e quanto a una ‘fame’ di raccontare?
“Il mio mestiere è una passione che praticavo gratis e che ho avuto la fortuna di poter trasformare in lavoro. Per questo sento l’obbligo di difendere la sua autenticità, di non vergognarmi davanti al me stesso di diciassette anni e di onorare la possibilità che ho avuto, perché ci sono tantissime persone che ci provano e non ci riescono. Bisogna sentirsi fortunati e fare le cose in maniera degna, che per me significa rispettare l’ispirazione, quindi non raccontare storie di cui non sono convinto, e rispettare quello che ho imparato durante la gavetta, mettendoci il massimo dell’impegno, lavorando da quando bevo il caffè la mattina fino all’ora di cena. Devi camminare mano nella mano con la storia che ti butta giù dal letto la mattina e ti tormenta il pensiero finché non è terminata. Poi, alla fine, ti rendi conto che in questo slancio hai raccontato anche cose non necessarie e, in ultima analisi, quando scrivi un libro destinato alla pubblicazione, fai parte di una squadra: non c’ è solo il lavoro di chi mette il nome in copertina, ma quello dell’editor, dell’ufficio stampa, del tipografo… E tu devi guardare a qual è miglior modo di servire la squadra e la tua storia. Ci sono pagine che magari sono molto buone, ma che vanno ugualmente tagliate, perché nella curva complessiva del testo non servono. Questo è il mio modo di onorare il me stesso diciassettenne, che metteva la sveglia alle sei di mattina per scrivere un capitolo prima di andare al liceo. Perché se qualcosa di buono è venuto dopo, arriva da lì, e non si può inquinare la fonte e poi sperare che l’acqua del fiume arrivi in paese pulita”.

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