Biografia letteraria di una personalità a dir poco prodigiosa (che già aveva ispirato Franz Kafka nel suo racconto “Un artista del digiuno”), “Il Digiunatore” di Enzo Fileno Carabba regala ai lettori un ritratto del profeta romagnolo Giovanni Succi, un uomo di altri tempi, ma che il tempo ha saputo trascendere divenendo immortale oltre la transitorietà del giudizio

Biografia in gran parte inedita di una personalità a dir poco prodigiosa, Il Digiunatore (Ponte alle Grazie) di Enzo Fileno Carabba (nella foto in copertina di Carlo Zei, ndr), affida alle valutazioni letterarie il dilemma psico-spirituale del “profeta” romagnolo Giovanni Succi (Cesenatico, 1850 – Casellina e Torri, 1918) leggendario virtuoso della privazione alimentare asceso alla fama del secolo XIX per aver interrogato folle di spettatori su quanto, della straordinaria abilità, davvero riferisse alla dimensione ascetica e quanto, piuttosto, alle fantasticherie di un buontempone.

È d’altronde costui il più grande digiunatore di tutti i tempi; cresciuto in una famiglia di non umili pescatori, un passato di ingenti possedimenti e un presente di conti disastrati, l’insolito protagonista manifesta sin da piccolo un’effettiva avversione verso ogni tipo di cibo solido, mantenendosi tuttavia robusto nel fisico come fosse egli stesso costituito di “una materia speciale”.

Enzo fileno carabba il digiunatore

Non a caso, è nel nutrimento dell’anima che maggiormente il Succi ritrova l’appagamento dei sensi: fascinato da quegli artisti circensi che, a bordo di carovane malconce, discendono dal “Paradiso Terrestre” per esibirsi durante le festività del paese, e sostenuto dalla nonna materna che chiare in lui intravede le avvisaglie della futura vocazione, il giovane esploratore decide quindi di rinunciare alle comodità di una carriera tradizionale per recarsi invece nella lontanissima Africa, e quivi studiare le leggi, e forse i magheggi, dell’antica pratica digiunatoria.

“Ecco tutto quello che ti occorre (…) per sostentarti durante quaranta giorni e quaranta notti”, così gli confida lo stregone errante che lo accompagna durante il suo viaggio iniziatico, “bada però a non abusare dello stato di salute”. E non che al lettore sia lasciato intendere quale fosse la ricetta del misterioso liquore-elisir procuratogli dallo sciamano; fatto sta che, a seguito della sua assunzione, Giovanni apparirà potenziato non soltanto a livello di resistenza corporea, ma puranche nella propria intenzione di diffondere il “digiuno socialista” (ovverosia la capacità di diventare invincibili astenendosi dal mangiare) quale forma rivoluzionaria di liberazione delle masse.

Immediato, ne consegue, il richiamo presso il grande pubblico: acclamato da quei circoli di spiritisti che subito gli riconoscono qualità medianiche e terapeutiche, ma di contro ostacolato da certi scienziati detrattori che ne temono la capacità di propaganda, il possente digiunatore viene di peso ricoverato presso il manicomio della Lungara, ed entrambe le volte per una diagnosi di frenosi sensoria (o asserito delirio religioso).

Nulla, tuttavia, sembra in grado di spostarne l’equilibrio interiore; nonostante venga sottoposto a reiterati test clinici per verificare l’autenticità delle sue esibizioni, e per quanto l’esperienza dell’alimentazione forzata sembrerebbe condizionarne la logicità dei ragionamenti, anche nell’isolamento Giovanni mantiene comunque la sua essenza di leader spirituale, alfine divenendo sia figura di riferimento per i fantasiosi caratteristi che, del romanzo, abitano l’ospedale (dal “malatino” Filsero alla “belva” Gigliola al “bambino” Mario) sia argomento di conversazione per i numerosi intellettuali che, con la sua narrazione, entrano storicamente in contatto (un imberbe Sigmund Freud, su tutti, ma anche il criminologo Cesare Lombroso e lo scrittore Dino Campana).

E che non sia dunque proprio questo, a prescindere dalle questioni relative ai suoi deliri di onnipotenza e/o alla effettiva genuinità delle sue esibizioni, il reale potere del fachiro Succi: rimanere sempre in ascolto del Sé stesso – che lui, più di tutto, definisce “Il vuoto al centro” – e, per l’effetto, risultare (in)credibile al di là di ogni ragionevole dubbio.

Affidandosi a una bibliografia frammentaria che già aveva ispirato Franz Kafka nel suo celeberrimo racconto Un artista del digiuno (1922), è con penna raffina e con un pizzico di ironia che Enzo Fileno Carabba (alle stampe italiane, tra gli altri, anche con Vite sognate del Vasari, per Bompiani) regala ai lettori un ritratto esaustivo, e mai noioso, di un uomo di altri tempi, ma che il tempo ha saputo trascendere divenendo immortale oltre la transitorietà del giudizio.

“In tutto questo si nasconde un significato. Un messaggio legato alla conoscenza di noi stessi in relazione agli altri”, questo conclude l’autore nelle pagine di epilogo al testo, “Infine ringrazio Giovanni Succi. Credo, sinceramente, che un contatto telepatico tra noi ci sia stato”. E ci crediamo tutti.

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