Cinismo permeante, ma sempre spassoso da ascoltare (e da leggere): “La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire” è il primo scritto pubblicato in Italia dell’umorista e scrittrice-che-non-scrive più celebre al mondo: Fran Lebowitz. A metà tra un commentario sociale e una serie di lamentele, il libro è intriso del suo acuto spirito di osservazione e della sua ironia pungente. Lebowitz ha da dire su ogni cosa, e ogni tanto la scrive, anche se ormai sono quarant’anni che il suo editore aspetta il nuovo romanzo… – L’approfondimento

Quando la vedi per la prima volta, credi che Fran Lebowitz sia una persona molto loquace, un’osservatrice profondamente critica, una grande scrittrice. Una di queste cose è falsa: Lebowitz non è una scrittrice, o almeno, non le piace definirsi così. È una non-scrittrice, nel senso che sì ha scritto molto, e si è fatta strada nel mondo culturale tramite la scrittura, ma solo perché doveva, dice, arrivare a fine mese a New York.

Se c’è una cosa che la terrorizza più di tutto al mondo è proprio mettersi seduta alla scrivania e scrivere, mentre non ha problemi a parlare davanti a un grande pubblico. Lebowitz è, più che altro, un’umorista professionista; conosciuta per il blocco dello scrittore più lungo in assoluto, che sta andando avanti dal 1981, il suo lavoro è il sarcasmo, lingua che parla splendidamente: tiene cioè degli speech dove dà opinioni non richieste su tutto ciò che le capita sotto il naso, e la gente paga per sentirla.

Eppure è una non-scrittrice incredibilmente prolifica: esce il 26 maggio per Bompiani (a cura di Giulio D’Antona, con una presentazione di Simonetta Sciandivasci) il suo primo libro tradotto, che è una raccolta di alcune rubriche tenute negli anni per vari magazine newyorkesi e che si intitola La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire.

Perché è proprio quello che pensa, e lo racconta nel primo capitoletto, dove cataloga la sua giornata tipo. Si sveglia a mezzogiorno e passa tutto il pomeriggio a letto, a leggere e a cercare di addormentarsi; si alza, esce con gli amici, torna tardissimo e si mette a scrivere: “Pertanto, ciò che noi chiamiamo civiltà sono solo i resti accumulati di un numero agghiacciante di nottatacce”.

È esattamente dormire, per Lebowitz, “la più efficace protezione dall’indecenza, invariabile conseguenza dell’essere svegli”, perché la vita là fuori, nella sua New York, è rumorosa e sporca, per colpa dei bambini che a suo dire la gente continua a fare senza sapersene occupare; è piena di turisti e di persone con “vestiti con immagini e/o scritte: sì, un’altra lamentela” che la fermano per strada per chiederle indicazioni. A queste lei risponde “Pretend it’s a city”, come nella docu-serie di Netflix che le ha dedicato Martin Scorsese e che prende il titolo proprio da questa sua affermazione, cinica come solo lei sa essere. Cioè “fingi che sia una città”, non una località turistica, perché qui gli artisti come Fran abitano e vogliono essere lasciati in pace.

In un’intervista, il regista ha spiegato che aveva pensato al documentario come a una cronaca in diretta, commentata da Lebowitz, di New York. E così è stato: “Marty”, come lei lo chiama affettuosamente, l’ha inseguita per la città mentre lei col broncio sgomitava per Times Square per farsi spazio tra la folla (tutta gente maleducata), sindacando senza mai censurarsi su tutto ciò su cui posava lo sguardo.

A caratterizzare le parole che escono dalla bocca di Lebowitz è proprio questo cinismo permeante, una lamentela continua, ma spassosa da ascoltare perché edificante. Ricorda l’ironia spiazzante di Woody Allen, col quale condivide tra l’altro le radici ebraiche, solo che mentre lui direziona il suo scherno verso di sé, lei lo riversa sugli altri. Andrebbe alla grande su Twitter, per definizione il social di ritrovo dei contrariati. Sì, se solo avesse un computer o anche solo un telefono, perché mentre noi siamo chini sul nostro, ci sarà sempre Lebowitz a farci notare quanto si stava meglio prima, a romanticizzare lo stato dell’arte di una città e civiltà che solo lei ha conosciuto.

Camperos ai piedi, occhiali tondi tartarugati che la fanno più severa, camicia e blazer maschili, Lebowitz ha vissuto, sempre così agghindata, gli anni e le persone più affascinanti di New York. Fin da quando è arrivata nel 1969 a diciannove anni con qualche dollaro in tasca e ha iniziato a lavorare come tassista, poi come autrice di romanzi erotici, ed è poi approdata a Interview Magazine, fondato da Andy Warhol (che non la trovava molto divertente), e ha iniziato a scrivere le sue rubriche: una, la classifica dei film più brutti e l’altra un commentario sociale, raccolto nel volume in uscita.

Al suo interno ci sono tra le lamentele saggistiche e teorie paradossali più brillanti mai scritte: una guida per capire se il figlio che aspettate è un aspirante scrittore (“Quando il ginecologo appoggia lo stetoscopio alla vostra pancia, non sente che scuse”), un pamphlet contro l’uso della musica nei luoghi pubblici (“Esistono due tipi di musica, quella bella e quella brutta: quella bella è la musica che voglio ascoltare io”), la sua tesi secondo la quale il bel tempo sta solo nei quartieri dei ricchi.

Presupposto per approcciarsi a Lebowitz è essere d’accordo con lei su tutto quello che dice, se no, semplicemente ti stai sbagliando. E attenzione, perché ha un’opinione su tutto. La sua immagine è protetta dal suo ego smisurato e imperante, che giustifica come abbia fatto del suo fallimento artistico il suo più grande successo. A coronare La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire ci sono due interviste alla non-scrittrice, la prima svolta appena prima del suo blocco, e l’altra quest’anno dal suo traduttore italiano.

Restituiscono un ritratto molto preciso di com’è lei ora, dopo aver abbandonato la scrittura, votata unicamente alla parola. Finisce sempre per ritornare al solito paradosso, parlare di scrivere, o meglio, di non scrivere, che è “la professione più estenuante che abbia mai provato”, “l’unico mestiere peggiore è il minatore”. Dice che ha voluto fare la scrittrice perché le sembrava la cosa più vicina a essere come Dio, e ora in un certo senso lo è diventata. Fran, protettrice degli scrittori che dagli anni Ottanta devono consegnare un romanzo al loro editore.

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