Dopo i saggi cult “Retromania” e “Post punk”, Simon Reynolds, uno dei critici musicali contemporanei più importanti, torna con “Futuromania”, una raccolta dedicata alla musica del futuro per eccellenza (al suo… futuro, e alle sue contraddizioni)
Uno degli aspetti più temuti del rock’n’roll era la sua ripetitività estrema. Il che è esattamente ciò che lamentano le enclave anti-hardcore. Quel che è certo è che ogni nuovo sviluppo nella storia del pop – dal punk al rap e all’acid house – è stato inizialmente accolto dalle stesse reazioni di paura e disgusto.
450 pagine e una quarantina di articoli pubblicati tra i primi anni ’90 e i giorni nostri per guidare attraverso i mille volti sonori assunti dalla musica elettronica in uno spaccato temporale che inizia nel 1977, con I feel love di Donna Summer e approda a Random Access Memories dei Daft Punk (2013): ecco Futuromania (minimum fax, traduzione di Michele Piumini), ultima pubblicazione di uno dei più importanti e apprezzati critici musicali contemporanei.
Simon Reynolds, già noto ai musicofili per Retromania (Isbn Edizioni, 2011, minimum fax, 2016, traduzione di Michele Piumini) e Post punk (anche in questo caso pubblicato da Isbn e poi riproposto da minimum fax, sempre nella traduzione di Michele Piumini), non smette mai di stupire per la vastità delle sue conoscenze musicali e la passione e la curiosità sconfinate che riserva al panorama sonoro contemporaneo senza limiti geografici, cronologici né tantomeno di genere.
Che sia il palcoscenico di un festival rock, una discoteca dance o un rave party, Reynolds è lì, ascoltatore onnivoro, interprete dei fenomeni del suo tempo attraverso un elemento che da semplice intrattenimento diventa strumento sociologico per eccellenza.
In Futuromania si passa dagli esordi della dance elettronica a Brian Eno e l’invenzione dell’ambient, dall’hardcore (cui è dedicata un’intera sezione) all’R&B di Timbaland e Missy Elliot – due dei più abili “manipolatori digitali” del pianeta – dall’”arida e ardua ricerca della beatitudine” del minimal dei Kraftwerk alla discussa conceptronica contemporanea. Tanto, forse addirittura troppo per un pubblico di lettori eterogeneo: checché ne dica il massimo esperto, non è così scontato che un fan di Eno trovi interessanti le speculazioni sul legame tra ecstasy e hip hop.
Ma il punto non è questo. Gli electric dreams (citazione di Philip Oakey) al centro del libro non sono solo parentesi oniriche associate a un connubio particolarmente riuscito tra certa musica, certi contesti e certe droghe; sono in realtà un modo, complesso nonostante le apparenze “superficiali”, di vivere il presente, di rapportarsi al passato, di attendere il futuro.
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In un’intervista rilasciata a Rolling Stone, Reynolds giustifica la scelta del titolo latinizzato al posto dell’inglese Futuremania proprio alla luce di una fascinazione per il concetto di futuro che precede la scoperta della musica e chiarisce che, nelle sue intenzioni, “questo libro vuole essere una celebrazione dei suoni che in qualche modo hanno sempre incarnato l’idea di futuro, di spinta in avanti, di novità”.
Il rapporto con l’avvenire è però estremamente contorto: oggi, che viviamo già in quel domani che l’era del synthpop aspettava con ansia (gli anni 2000), si registra una “sostanziale irrecuperabilità della dimensione futuristica di questa musica […] Svuotato del suo aspetto futurista, oggi il synthpop punta tutto sul pop”.
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La musica elettronica, enfatizzando più gli effetti che le note, il suono più che il testo, è mossa dal desiderio di scoprire le potenzialità sonore più radicali o futuristiche delle ultime tecnologie. Nella sua forma dance, animata dal desiderio di accomunare e non da quello di comunicare, è musica democratica per eccellenza.
Eppure, per quanto possa sembrare un paradosso, l’ossessione per il futuro non esclude un’attrazione altrettanto potente per il passato e le origini. Secondo l’analisi di Reynolds questa contraddizione approda al suo punto di rottura nella metà degli anni ’90, che vede sì l’emergere di generi nuovi dallo spirito futurista, ma segna anche la svolta reazionaria con il Britpop di Blur e Oasis. Il loro successo internazionale è l’emblema di un fenomeno irreversibile in atto: la “delibidinizzazione del futuro”, in quanto sinonimo di ignoto.
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In Retromania sostengo che il modello predominante per artisti e musicisti degli anni ’60 era l’astronauta, l’esploratore delle nuove frontiere; oggigiorno la maggior parte dei musicisti, artisti e designer somigliano più ad archeologi.
Lo si vede anche nel modo di fruire i generi musicali avanguardistici: oggi il minimal si ascolta soprattutto nei bar eleganti con poltrone comode e prezzi esorbitanti. Il modello dell’elettronica di oggi non è più l’underground (contrapposto alla cultura di massa), ma la boutique (un mercato di nicchia parallelo al mainstream ma di fascia leggermente più alta).
C’è un momento in particolare che, nei timori di Reynolds, sembra rappresentare un punto di non ritorno: il 2013 di Random Access Memories dei Daft Punk che, con l’intento di rinnovarsi, si rivolgono a stili musicali in voga un trentennio prima. Se la loro hit Get Lucky rappresenta la minaccia più tangibile di “fallimento del futuro”, è con sollievo che Reynolds rileva l’assenza di strascichi nell’elettronica successiva e la sua natura di fenomeno isolato.
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Cosa aspettarsi, allora, dal futuro della musica del futuro? Reynolds conosce i limiti della sua indole “profetica” stuzzicata dagli strumenti divulgativi che il mestiere gli mette a disposizione. Memore delle sue pubblicazioni passate, lascia i suoi lettori con un moderato giudizio: la musica evolve in maniera dialettica, mediante scarti fulminei del desiderio popolare che sono letteralmente imprevedibili. Una bolla (d’interesse, d’entusiasmo, di possibilità) scoppia all’improvviso; autori e ascoltatori intuiscono che una certa direzione sta diventando un vicolo cieco, senza dare vita a gioie o colpi di scena imprevisti.
Quanto all’ipotesi che gli electric dreams continueranno ad affascinarci ancora per un bel po’, non possiamo che essere d’accordo.