Ha ancora senso la critica musicale nell’era di Facebook e Instagram? Nel libro “Scrivere di musica – Una guida pratica e intima” Rossano Lo Mele discute e illustra i vari fronti su cui il giornalista musicale si trova oggi impegnato, mantenendo un occhio al contesto tecnologico ed economico, profondamente mutato negli ultimi venticinque anni – Su ilLibraio.it il capitolo dedicato all’impatto dei social

Nel suo piccolo, anche il critico musicale soffre un castigo di Sisifo. Di fronte al suo reportage, alla sua recensione, al suo profilo ci sarà sempre qualcuno pronto a ricordare quella battuta famosissima, quel motto molto arguto e feroce, forse di Frank Zappa, forse di Elvis Costello, forse di Thelonious Monk. Ma in fondo conta poco chi lo disse per primo, perché quel motto – “scrivere di musica è come ballare di architettura” – funziona sempre. Il critico musicale, soprattutto quello di musica rock e pop al quale Rossano Lo Mele si rivolge con il libro Scrivere di musica – Una guida pratica e intima (minimum fax), deve dunque lasciare rotolare a valle il macigno di Sisifo, e in cima alla collina preoccuparsi solo di ballare bene di architettura.

Questa guida vuole appunto fornire un aiuto concreto per danzare con le parole, per scrivere bene di musica. Nasce dall’esperienza del suo autore, direttore di uno storico mensile di musica e cultura, docente di Linguaggi della musica contemporanea, e membro fondatore di un gruppo rock, i Perturbazione, che ha segnato almeno due generazioni di ascoltatori. Senza semplificazioni dannose né fumisterie ancora più dannose, l’autore del saggio autobiografico discute e illustra i vari fronti su cui il giornalista musicale si trova oggi impegnato, mantenendo un occhio al contesto tecnologico ed economico profondamente mutato negli ultimi venticinque anni, ma non dimentica mai che chi scrive di musica, anche professionalmente, lo fa prima di tutto per passione.

Scrivere di musica Rossano lo Mele

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Scrivere di social network significa costruire su fondamenta molto poco sicure: quello che oggi sembra solidissimo – la verità che pare oggettiva e valida nel tempo – domani crolla d’improvviso. Scrivere di musica sui social network significa poi adattare il proprio lavoro ai costanti cambiamenti degli algoritmi che governano la circolazione dei contenuti sulle piattaforme di riferimento. Nella maggior parte dei casi il loro funzionamento è opaco, soggetto a oscillazioni ed esperimenti. Nulla è sicuro, e nulla è stabile. Tuttavia credo sia utile analizzare «dal punto di vista musicale» alcune caratteristiche dei social principali e mostrare alcuni casi recenti.

Partiamo da una considerazione: la maggioranza dei musicisti usa sempre di più Facebook come se fosse il proprio sito ufficiale. L’autopromozione ha quasi sempre grande spazio, seguita da slogan motivazionali, ironie e foto buffe. Ma esistono anche molti artisti che su Facebook, Twitter, Instagram e YouTube esprimono opinioni e prendono pure posizione. Ad esempio Billy Bragg si apre al dibattito politico: lo faceva a inizio anni Ottanta in strada, lo fa anche ora in rete. Rimanendo al lavoro musicale in senso stretto sono rimasto colpito da un post del produttore e DJ canadese Tiga (1): nell’estate del 2017, all’indomani di una serata in un club romano andata piuttosto male, ha postato una sua foto sconsolato fuori dal locale e ha dato la sua interpretazione dell’insuccesso. Ha individuato la ragione del fallimento in un mix – qui è proprio il caso di dirlo – di arroganza nella selezione musicale e di mancata risposta del pubblico. Ancora una quindicina d’anni fa una cosa del genere sarebbe stata quasi impensabile, al limite un ufficio stampa avrebbe preparato un comunicato stampa fumoso. Con quella foto e con quel post invece Tiga ha raccontato onestamente e in diretta una verità che gli artisti e i promoter sono abituati a tacere: le serate e i concerti possono anche andare male. Le cose sono cambiate anche perché un tempo era più facile ignorare la realtà; quella sera del 2017, invece, chissà quante altre «persone normali» avevano già commentato sulla loro pagina personale o in un gruppo la serata di Tiga.

Negli ultimi anni sono appunto proliferate diverse comunità online che condividono gusti e passioni musicali. Un caso ormai molto noto è il gruppo Facebook Indiesagio, dissacrante community che spesso mette al centro dei suoi post la nuova canzone italiana, avendo come punti di riferimento artisti quali Calcutta e I Cani. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi senza sforzo, talvolta pare anzi che non ci sia nicchia tanto piccola o sottogenere tanto oscuro da non avere un piccolo culto social.

Una comunità è anche quella che segue online una testata musicale. La quale oggi si trova in una condizione molto di- versa rispetto a un tempo: se nel passato, lontano e recente, il lettore in disaccordo aveva la possibilità di comunicare privatamente la sua opinione alla testata via lettera, prima, ed e-mail, dopo, ora il contatto è immediato e pubblico. Sotto un qualsiasi link di un articolo segnalato su Facebook troverete opinioni contrastanti. Rispostacce, commenti feroci, tentativi di mediazione falliti, insulti e persino minacce sono da mettere in conto. Proprio per questo bisogna, come giornalisti, essere accurati e precisi, ovvero dare meno appigli possibile a chi vuole solo accapigliarsi. Faccio un esempio semplice, ancora una volta triste, legato al sito di Rumore: nella primavera del 2018, durante le prime ore successive al decesso di Chris Cornell (voce dei Sound- garden e degli Audioslave) si cominciò a parlare di un possibile suicidio. Il musicista era molto amato dal nostro pubblico, così la nostra attenzione fu da subito altissima. L’autore del pezzo online sul decesso, Andrea Prevignano, fu in Italia tra i primi a scrivere che si ipotizzava l’impiccagione, essendo state ritrovate delle fascette, utili purtroppo allo scopo. Alcuni lettori della nostra pagina Facebook reagirono malissimo all’informazione. La critica più frequente era: come vi permettete di dire una cosa del genere? Ma l’autore non aveva riportato un pettegolezzo diffuso da un utente Twitter sconosciuto, bensì si era basato su fonti come il New York Times che, riportando le voci della poli- zia locale, stava lentamente ricostruendo il caso; dunque era legittimo e anzi in un certo senso doveroso segnalare l’ipotesi del suicidio. Tutti in redazione comprendemmo però i nostri lettori: una grande passione – la musica, i suoi autori e interpreti – tende a generare reazioni incendiarie, soprattutto in occasioni particolari come quella che si stava vivendo. Inoltre, tutti sapevamo già per lunga esperienza che a un social network ci vuol poco per tramutarsi in un accelerante.

Un accelerante anche per la fama degli artisti. Ormai molto lunga è la lista di nomi esplosi prima su YouTube e poi nel «mondo reale» (come si diceva una volta, fingendo che YouTube sia meno reale di una libreria Feltrinelli). Cito solo Ed Sheeran, The Weeknd, James Bay, Justin Bieber, Shawn Mendes, Stormzy, 5 Seconds Of Summer. Leggenda vuole che Ed, il ragazzino rosso, suonasse in cameretta la musica che gli piaceva e disinteressato postasse i suoi video, per poi finire stella del firmamento pop. Per il giornalismo musicale YouTube e Spotify, sono oggi fondamentali e meritano una grande attenzione: le sottoculture di oggi, e dentro di queste i giganti di domani, si muovono qui.

Inoltre, il giornalismo musicale può con mezzi relativamente limitati andare oltre la parola scritta, su carta e in rete, e fornire anche contenuti video. Una forma evoluta di questo sono i «canali» di YouTube come quelli di Vox, media company generalista che produce ottimi videoarticoli di ampio respiro a tema musicale. Notevole anche il caso di Genius, che fa un grande lavoro sui testi, spiegati dagli artisti o usati per raccontare temi ed eventi. Ma anche i singoli possono ottenere risultati di rilievo: ricordo qui theneedledrop, nome d’arte di Anthony Fantano, vlogger americano le cui recensioni di album dimostrano quanto loquacità, cultura musicale e capacità di stare di fronte a una videocamera possano produrre in termini di visite.

Insomma, come abbiamo visto in tutto il libro e in special modo in quest’ultima parte, il ruolo del giornalista musicale, su carta e dentro la rete, è in continua evoluzione: la versatilità è quindi un valore imprescindibile per chi scrive di musica. Sapere scrivere bene spesso non basta, occorre dirlo con forza, nonostante la nostra assoluta fedeltà alla Regola Aurea di Christgau. Per riuscire a sopravvivere all’interno del ristretto mercato del giornalismo musicale è dunque consigliabile avere una visione quanto più ampia possibile del panorama in cui si opera e sapersi muovere in più settori. È importante, in concreto, cogliere il senso di una testata, capire la direzione in cui potrebbe crescere, saper editare i pezzi altrui e renderli il più efficienti possibile sui social network; ma anche saper selezionare le immagini e i video di corredo, modificarli e ottimizzarli in base alla propria utenza sono ormai abilità richieste. E se siete bravi a stare davanti a una webcam, ancora meglio. Che ci piaccia o no, il critico musicale puro, quello che scrive la sua recensione e ignora tutto il resto, ha una vita molto dura.

Ma quel famoso critico puro serve a qualcosa, oggi? Negli anni Settanta e Ottanta c’era un rapporto piuttosto stretto tra musica e analisi della musica. Lester Bangs ebbe a dire che la sua fortuna fu proprio il suo rapporto con Lou Reed, il procedere parallelo e distinto: gli innumerevoli diverbi e le interviste, gli elogi e le recensioni, la condizione di essergli contemporaneo. Ma bisogna, come faceva Bangs, scavare sotto la superficie di questa contemporaneità, andare fino in fondo. Fino alla fine. E come si può riuscire a farlo nel nostro presente, cioè in un’epoca che pare aver sbriciolato i concetti stessi di contemporaneo e di fine dentro una continua riproposta e rivisitazione del già fatto? Di questo ha scritto Amanda Hess sul New York Times, facendo un illuminante esempio cinematografico. Negli anni Ottanta, 6 dei 20 film che incassano di più al botteghino sono dei sequel. Negli anni Dieci la cifra aumenta paurosamente: 17 film su 20. Il passato è un enorme archivio da cui si attinge con continuità, per generare prodotti «nuovi». Di più, continua Hess: la struttura senza confini spaziali e temporali di internet fa sì che passato, presente e futuro si incrocino in continuazione.(2)

Vi ricorda qualcosa, vero? Non era esattamente quanto preconizzato da Retromania? Simon Reynolds ha scritto molto probabilmente il saggio musicale più importante del nuovo millennio, e ha spiegato una volta per tutte la nuova condizione.

“Il passato non è più «perduto» grazie all’accesso totale della digicultura, il futuro (e con esso il futurismo e la futuristicità) non ha più la carica di un tempo. La mia inchiesta del tutto ascientifica – sondare le opinioni di mio figlio undicenne e della babysitter ventenne di mia figlia – conferma l’impressione di William Gibson sulla nuova generazione: il futuro con la f maiuscola è un argomento al quale sono totalmente disinteressati e a cui non pensano quasi mai. La voglia di evadere dal qui e ora e dall’insipida quotidianità di periferia non è meno forte, ma viene soddisfatta con la fantasia (lo spaventoso successo di romanzi e film a tema magico, vampiresco, stregonesco e soprannaturale) e la tecnologia digitale.»”(3)

In questo discorso rientra anche la gigantesca quantità di musica di ieri, con le sue ristampe immesse sistematicamente, freneticamente sul mercato; e vi rientra anche il fenomeno parallelo di quello che possiamo chiamare giornalismo retromusicale, con riviste specializzate che dedicano ogni mese copertine a Jim Morrison, Janis Joplin e Jimi Hendrix. Il passato si affianca al nuovo, in un (ri)ciclo senza fine. Che ormai arriva sino a quella che possiamo chiamare la retromania social.

Molti di noi usano i social dalla seconda metà degli anni Zero, qualcuno si ricorderà dunque la parabola di Lily Allen che grazie a un abile lavoro di promozione su MySpace, lo sfortunato pioniere delle reti sociali, e a qualche parentela importante (cosa che non fa mai male), divenne un fenomeno teen, guadagnò in fretta un contratto di una multinazionale e poi il vertice delle classifiche di vendita. Vediamo accadere una vicenda simile, quasi negli stessi identici termini, oltre dieci anni dopo con Billie Eilish e il suo successo planetario. A cambiare è però la piattaforma: ora siamo su Spotify, con le sue playlist, le sue comunità e le sue convenzioni. La storia si ripete, anche sui social media. La storia gira intorno, come un vinile sul piatto, e la musica suona ancora.

1. Dal profilo ufficiale di Tiga su Facebook, post del 30 luglio 2017.

2. Amanda Hess, «The End Of Endings», New York Times, 15 novembre 2018.

3. Simon Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, minimum fax, Roma 2017, traduzione di Michele Piumini, p. 493

(continua in libreria…)

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