Eraldo Affinati ha deciso di accettare una “sfida letteraria” non semplice, completando “Il Gec dell’avventura”, romanzo per ragazzi rimasto inedito e incompiuto firmato da Silvio D’Arzo (1920-1952), autore di “Casa d’altri”, libro di culto pubblicato postumo nel 1952. Ne scrive su ilLibraio.it Mario Baudino

In campo musicale è avvenuto più spesso. In quello letterario un po’ meno: completare un’opera rimasta incompiuta è una di quelle operazioni che è difficile stabilire se siano di “servizio” o di impossessamento, con un gesto quest’ultimo quindi tutto metaletterario. Di servizio era certamente il finale della Turandot che Puccini alle soglie della morte non poté o non volle comporre, e fu affidato da Ricordi al compositore Franco Alfano (spesso infatti non viene più eseguito). Del tutto autonomo, tanto per fare un diverso esempio, è stato invece quello che Fruttero & Lucentini scrissero per Il mistero di Erwin Droode, il romanzo che Dickens lasciò, morendo, senza il fatale ultimo capitolo; tanto che è stato poi pubblicato anche autonomamente col titolo La verità sul caso D. (dove entra in scena Poirot insieme all’élite degli investigatori letterari). Il testo di partenza non diventa mero pretesto, ma senz’altro in qualche modo la polarità di un dialogo, dove si misurano vicinanze e distanze magari non del tutto consapevoli.

La “continuazione” è uno dei luoghi della sorpresa: questo almeno mi pare avvenga ora a Eraldo Affinati che ha deciso, dice in una sua postilla, di accettare una sfida per quanto riguarda l’autore forse da lui più amato, Silvio D’Arzo, “completando” Il Gec dell’avventura, romanzo per ragazzi rimasto inedito e incompiuto. Esce così per Einaudi “firmato” da entrambi, a cura di Alberto Sebastiani che dettaglia in una ampia introduzione la vicenda anche editoriale del libro, finita in nulla per difficoltà contingenti e anche perché l’autore inseguiva forse un progetto ambiziosissimo ma sfocato.

Gec dell'avventura

Il Gec dell’avventura è infatti un romanzo letteratissimo, dove il fantastico sovrasta in qualche modo la favola, e nello stesso tempo onirico e beffardo, in altre parole un lavoro persino sperimentale, destinato a lettori di età indefinita. Non venne concluso – o meglio non venne pubblicato, la conclusione, volendo, ci sarebbe già, è quella che si ferma davanti alla irriducibilità dell’avventura, all’idea che in quanto tale essa non abbia davvero termine – e ha finito per costituire l’incunabolo più importante di un libro che invece ebbe i suoi lettori, tra cui Affinati fin dagli studi universitari: Penny Wirton e sua madre, uscito nel 1948 dopo una lunga gestazione e varie prove di racconti. Com’è noto Penny Wirton è anche il nome della scuola che Affinati ha creato coinvolgendo molti scrittori per insegnare l’italiano ai giovani immigrati: per prendersi cura di loro un po’ alla maniera della madre di Penny, una sorta di ostetrica magica che aiuta i bambini a nascere facendoli però accorrere nelle case delle partorienti da un qualche luogo oltremondano e immaginario.

Nel Gec dell’avventura è ben presente questo nocciolo narrativo (e non solo: permangono molti altri elementi essenziali, a eccezione di una folle navigazione su una nave pirata, che occupa peraltro una buona metà del libri); ed è il nucleo tematico che spinge Affinati al suo “completamento”, fornendogli un’intera nave semi-arenata a disposizione: ottima per essere trasformata non in un rudere gotico ma in un’allegra scuola per i bambini che, nel loro viaggio verso il nostro mondo, si sono perduti, un po’ come i compagni di Peter Pan. Ma fra gli elementi centrali di entrambi i testi, oltre al tema dominante dell’orfanità, andrà almeno ricordata la comunione notturna con chiacchiere e persino discussioni tra vivi e defunti al cimitero, alla quale è quasi impossibile non accostare una scena assai memorabile – nella Voce della luna di Federico Fellini, e chiedersi se il regista avesse letto, chissà mai, lo scrittore – nel Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, cui è ispirato il film, una pagina del genere non esiste. Sembrerebbe ideale per un ulteriore sviluppo, ma le scelte d’autore, va da sé, non si discutono.

Siamo di fronte in questo libro “incompiuto” a momenti di pura visionarietà, architetture del desiderio e del sogno. I riferimenti a J. M. Barrie o Stevenson (soprattutto), o a Lewis Carrol e in generale agli scrittori britannici per l’infanzia ma non solo, molto cari a D’Arzo, trionfano del resto in Gec magmatici, entusiastici, divertiti come in un enorme gioco. In Penny Wirton la lezione soprattutto di Stevenson sembra aver convinto lo scrittore a una vicenda sì fantastica, ma inserita in un contesto narrativo più strutturato e funzionale. E la scelta di Affinati sembra guardare più al romanzo compiuto, piegando anch’egli, nel decidere il finale, il disordine all’ordine, non solo ma anche render conto delle apparenti incongruenze e dell’ilare sregolatezza del testo, incunabolo di un suo incunabolo, per proiettarlo sui nostri giorni, sulla sua scuola e sugli ideali che la sostengono; facendone quasi il segnale di un destino.

Silvio D’Arzo, che è lo pseudonimo scelto più di frequente e con gli esiti migliori da Ezio Comparoni (1920 – 1952), è autore noto soprattutto per il quasi miracoloso racconto Casa d’altri – uscito ormai già postumo proprio nel 1952 sulla rivista Botteghe Oscure, che esaltò Giorgio Bassani (“Guardate qui che racconto! Guardate, è tutto in versi, solo un orecchio finissimo se ne accorge” disse portandolo in redazione), Attilio Bertolucci, Eugenio Montale o Giorgio Manganelli. Resta tuttavia scrittore isolato e atipico, irregolare si dice in questi casi (oltretutto scomparso prematuramente, e quindi equivocato spesso come “autore di un solo libro”), gran lettore di romanzi in lingua inglese ma anche di D’Annunzio.

L’arco voltaico della sua scrittura va da intuizioni immaginative di rastremata intensità metaforica, che non sembrano proprio destinate ai ragazzi (“Un minuto scoccò dentro il silenzio, si allargò come un’onda, poi si sciolse sopra la immensa prateria dell’aria”) a dialoghi buffissimi e concitati, battute di (apparente) ingenuità infantile, come quando il terribile capitano Gulfeustram prega Dio di far annegare un rivale, e conclude “Come vedi, il guadagno, in questo caso, è dalla parte tua. Pensaci a modo”. È, il suo, uno stile non imitabile, se non correndo il rischio di una resa accademica e stucchevole. Affinati se ne guarda bene, e giustamente.

Più che un “completamento”, siamo di fronte a una postilla in forma narrativa. Che ha il merito di suggerirci una via possibile di rilettura, molto legata al nostro, di tempo: soprattutto, com’è ovvio, del tema dei bambini perduti, che D’Arzo conosceva in Barrie, in Dickens e in molti altri, e rielaborò fantasticamente – divertendosi magari a trascrivere foneticamente parole inglesi come in una filastrocca infantile – ma anche, lui orfano come Penny Wirton e come Gec, non senza (immaginaria?) autobiografia. E alla sua sapiente, burlesca maniera.

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