Esiste ancora una vita adulta da descrivere per un’intera generazione che non ha un futuro da chiamare casa? A un certo punto di “Il buco” di Gessica Franco Carlevero (che racconta senza giudizi la maternità), il meccanismo tipico del romanzo di formazione si spezza. Ed è un accadimento letterario a cui stiamo assistendo da un po’, ormai. Nella letteratura scritta dai millennials, infatti, c’è spesso una vena di malinconia. Una generazione che fa lotte di retrovia. Che, si era detta, non saremo mai come chi ci ha preceduto. Nella protagonista del libro c’è tutto questo, e in purezza…
Quando si definisce un canone letterario, capita spesso che chi pubblica libri continui a utilizzare le stesse macro categorie, per comodità di sintesi, con la funzione di inquadrare una futura pubblicazione all’interno di un settore di mercato e di favorire la comunicazione con i lettori. Così potremmo, in senso classico, definire il romanzo di Gessica Franco Carlevero, Il buco, in libreria in questi giorni per Sellerio, un romanzo di formazione.
C’è una protagonista, Irma, con la sua infanzia dentro una scuola privata di forte impronta cattolica.
C’è il percorso accidentato, due genitori che a un certo punto ne hanno avuto abbastanza, e le hanno voltato le spalle. Un padre, scomparso per debiti di gioco, e una madre, che si è legata a un ragazzino poco più grande di lei, nella morsa di un vincolo di dipendenza affettiva in cui sapeva che avrebbe perso in partenza.
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E poi il “buco”, appunto. Questa ossessione che Irma ha, che la accompagna sin dall’infanzia. Un DOC, come si direbbe adesso, un Disturbo Ossessivo Compulsivo. La tricotillomania, l’impulso di tirare e strappare peli e capelli, che l’ha portata e ancora la porta, alla soglia dei trent’anni, a provocarsi questi buchi in testa, della dimensione del fondo di una tazza.
Insieme a lei, suo alleato nella lunga strada che dovrebbe portarli alla piena conclusione del loro viaggio di realizzazione del sé, altrimenti detto “età adulta”, troviamo Giacomo.
Amore post adolescenziale, quindi in qualche modo già maturo, un’àncora, una visione di futuro, un sostegno per il progetto di vita più ambizioso di Irma, quello di avere un figlio, una famiglia, e di non essere mai, in nessun caso, come sono stati i suoi genitori. Questo Irma se lo era promesso fin da piccola, era l’unica certezza che aveva sempre avuto, insieme al buco rotondeggiante in mezzo alla testa.
Solo che poi, nel cammino dell’eroe, la vita pretende sacrificio. E così l’ambizione di scrivere per il teatro diventa l’affaccendarsi nei lavori più improbabili.
Ghostwriter di tesisti in filosofia, scambista di lavoretti su siti che ti ripagano in visibilità. Irma e Giacomo decidono di migliorare la propria già invidiabile posizione facendo due cose che all’apparenza possono provare a risolverti con un senso: fare un figlio e andare all’estero.
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E così caricano alcuni scatoloni e loro stessi, già stanchi come se fossero in fase di prepensionamento, per sbarcare a Marsiglia. Dove effettivamente un figlio arriva, ma non migliora una situazione che non si potrebbe meglio definire se non come “tirare a campare”.
Ed è qui che, in effetti, il meccanismo del romanzo di formazione si spezza. Ed è un accadimento letterario a cui stiamo assistendo da un po’, ormai.
Nella letteratura scritta dai millennials c’è spesso questa vena di malinconia. Adulti fin da piccoli, cervelli spesso in fuga avviluppati da finissimi ragionamenti esistenziali, nostalgici della propria infanzia, a volte persino dell’infanzia dei propri genitori, di cose che non hanno mai vissuto, incapaci di tracciare una linea dritta che arrivi da un punto A a un punto B, per dire, sono arrivato. L’età adulta è mia. Forse non era come l’avevo sognata, ma ce l’ho fatta.
Una generazione che fa lotte di retrovia. Che, si era detta, non saremo mai come chi ci ha preceduto. In Irma c’è tutto questo, e in purezza.
L’autrice, Gessica Franco Carlevero, lo rappresenta plasticamente anche nella lingua, che segue i pensieri della sua protagonista. C’è una saggezza, nella Irma bambina, che molte persone coetanee non faranno fatica a riconoscere, e al contempo un disincanto che è la poesia delle cose accettate controvoglia.
I cliché che pensavamo di sconfiggere: il rapporto di dipendenza emotiva donna – uomo (come si diceva sopra), una società sempre più polarizzata e violenta:
Italian Warrior era contrario, contro le fecondazioni, contro gli aborti, le lesbiche, gli omosessuali, le adozioni e i divorzi. La sola cosa a cui era favorevole era la mona, depilata.
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Una visione della rabbia sociale che è più self-branding che protesta:
Sull’altana davanti casa c’era una famiglia con un bambino di tre anni. Coltivavano marijuana e decoravano alberi di Natale d’estate. Mi ero proposta come babysitter, ma avevano una ragazza alla pari danese.
Il tutto però visto, appunto, dal “buco” della serratura. Si guarda la vita passare come se fosse un film già visto tante, troppe volte.

Gessica Franco Carlevero (per gentile concessione di Sellerio)
La locomotiva dei Lumière c’è, ma non c’è più la novità. Non è più una cosa che irrompe in mezzo alla sala e sprona quantomeno alla fuga, se non alla rabbia. Particolarmente vivida e ben descritta la maternità della protagonista. Su questo argomento vediamo la letteratura spiccare nelle prove recenti. Szilvia Molnar, con La Nursery (Guanda), Claire Kilroy con E sempre lo farò (Garzanti), per citare due romanzi molto recenti. Ma anche saggi incredibilmente accurati e quasi poetici, come Matrescenza di Lucy Jones (Laterza).
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A cui si aggiunge ora Gessica Franco Carlevero. Una maternità raccontata senza giudizi, senza una pretesa politica o di valenza esperienziale collettiva, ma semplicemente mostrata nel succedersi dei giorni, nella fatica del costruirsi un’identità e un posto nel mondo, per poi vederla scissa in una persona che non sei più tu. La vita e la morte insieme, quando si concepisce un’altra vita. Forse questa generazione ha trovato la via e la voce per raccontare almeno una cosa, e una cosa enorme, forse tra le più importanti, senza retorica. E di questo saremo sempre grati.
Leggere romanzi come Il buco fa scaturire molte domande, tra cui anche questa: può ancora esistere un romanzo compiuto che si possa davvero definire “di formazione”, che porti cioè a un finale non lieto, magari anche non giusto, ma quantomeno risoluto per i suoi protagonisti?
In altre parole, esiste ancora una vita adulta da descrivere per un’intera generazione che non ha un futuro da chiamare casa? Non resta che seguire le vicende di Irma per provare, ancora una volta, a darci delle risposte.
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