L’autore del bestseller “Le otto montagne” torna con “Giù nella valle”, una storia di fratelli in un mondo di ambiguità e di disagio, dove nessuno è Caino, nessuno è Abele. La Valsesia narrata dall’autore è cupa, risuona di ululati e di una tensione amara, dolorosa. Riecheggia l’eco dei cantori degli sventurati: Raymond Carver, Flannery O’Connor, Bob Dylan, ma soprattutto Bruce Springsteen con il suo Nesbraska…

“La Sesia, quando la attraversò, era un solco scuro.

Dopo il ponte i fianchi della valle si fecero più severi. L’autunno aveva ormai perso ogni colore e adesso nelle faggete, nei castagneti, nei querceti le foglie secche si accumulavano al suolo”.

paolo cognetti giù nella valle einaudi

La Valsesia di Paolo Cognetti è cupa, risuona di ululati e di una tensione amara, dolorosa. Giù nella valle (Einaudi) è una storia di fratelli in un mondo di ambiguità e di disagio, dove nessuno è Caino, nessuno è Abele. Luigi è una guardia forestale, Alfredo uno sbandato tornato dopo anni trascorsi in giro, tra lavoretti e galere. Hanno rinunciato entrambi alle loro illusioni, sono entrambi a modo loro inadatti, fuori posto: cani randagi, che si credevano lupi.

A Fontana Fredda c’è la casa del padre, morto suicida. Luigi vuole andarci a vivere con la moglie Elisabetta, e ci sono cinquemila euro pronti per Alfredo, la sua parte: sono quelli che lo hanno fatto rientrare nelle terre della sua infanzia. Ma c’è anche il progetto di una pista, una svolta per la valle, forse anche per Luigi, che potrebbe nascondere qualcosa al fratello. C’è nervosismo nell’incontro tra i due, ed è un’atmosfera tagliente che pervade tutto il libro. Quella di Fontana Fredda non è la casa della riconciliazione di Pietro e Bruno, i protagonisti delle Otto montagne. Qui non c’è da costruire insieme, non c’è un progetto, c’è solo tristezza, l’ombra della disonestà, e un destino con cui fare i conti, ineluttabile, come il fiume che scorre in una sola direzione. Come i lupi che non possono fare a meno di ammazzare.

“Ma è dalla notte dei tempi che gli uomini tagliano le piante, accoppano le bestie e si sfondano la testa a vicenda. Se c’è del male su questa terra è solo roba nostra”.

Liberaci dal male: cresciuti recitando una preghiera che le sberle della vita hanno svuotato di potenza, ci si ritrova a scoprire a nostre spese che il male è tutto dentro di noi. La valle insegna una verità assoluta, c’è una parte al sole, e una parte all’ombra, ci sono gli animali domestici e quelli selvaggi, ci sono i campi e i boschi, i cani che guardano con nostalgia le case, i lupi che azzannano per sopravvivere. Ci sono fratelli che appaiono diversi, sole e ombra: il larice dritto a cercare la luce, l’abete fitto di aghi scuri. Duro e fragile, in grado di ondeggiare nel vento, Luigi è il larice. Ombroso, ma forte e resistente, adatto al gelo: Alfredo è l’abete, il sorriso sporcato dal fumo e dalla vita.

Sono due fratelli apparentemente diversi, gli alberi piantati vicini dal padre, un uomo triste, il cuore sprangato: destinati a intrecciarsi nel tempo, o a essere abbattuti, per spezzare un legame, un cordone.

La storia di Luigi e “Fredo” è fatta di non detti, di tante condanne e poco perdono, è piena di solitudine, di valle: la Valsesia ha una bellezza selvatica, scura, è una terra operaia, rifugio di minoranze, di gomiti appoggiati al bancone del bar alle quattro del pomeriggio, l’alcol a connettere il lato selvaggio e quello domestico, a unire la luce con l’ombra, Luigi con Alfredo, a trasformare in lupi, mentre tutti se ne vanno e chi resta si ritrova la gramigna a crescere nel petto.

Sono cuori in secca, come il fiume, dove dieci anni prima ci si innamorava: Luigi ci portava Elisabetta a fare il bagno, e lei, ragazza di città, aveva intravisto il fascino della vita reale, in quelle acque e nello sguardo di ragazzo che voleva lavorare il legno, il suo “buon selvaggio”. Ma le stagioni dei bagni nel fiume sono passate, insieme ai sogni, ed è rimasta la vita: Elisabetta è una Karen Blixen sola nella sua terra straniera, e la Sesia è un’acqua nella quale immergersi per dialogare con la stagione selvatica, un rito primordiale di incontro con la natura.

È la disadorna semplicità del folk l’anima di Giù nella valle, dove Paolo Cognetti racconta la sua badland, rievocando atmosfere dei margini, di disoccupati e emarginati, da Grande Depressione americana.

“Scrivere è un po’ dialogare con i tuoi maestri”, diceva Cognetti in un’intervista a ilLibraio.it, e in questa storia riecheggia l’eco dei cantori degli sventurati, Raymond Carver, Flannery O’Connor, Bob Dylan, ma soprattutto Bruce Springsteen con il suo Nesbraska.

Well, sir, I guess there’s just a meanness in this world”, cantava Springsteen nel suo album, dove il rock lasciava il posto a un folk ruvido, e cupo, per una storia roca di miseria.

Scende a valle, Paolo Cognetti, si immerge nelle acque della fragilità, nelle ombre delle persone perse, nella vita che sbatte a terra, in un nowhere spettrale, e riprende i versi di un bardo gallese del VI sec per mettere in scena una nuova Battaglia degli alberi.

Il suo Nebraska nasce così, desolato, dritto al cuore delle cose, sul solco di un dialogo con gli autori, i “suoi classici”, dove musica e racconti trovano un terreno comune: Giù nella valle risuona duro, con la sua caratteristica scrittura asciutta e limpida, senza niente di troppo, che a tratti ha il suono crudo di una ballata per chitarra e armonica.

“Non fermarmi, fratello mio: pensa a tua moglie, pensa a tua figlia. Addio Sole e Neve, una bionda!, addio La Ruota, un whisky!, addio Silly Monkey, giù le mani che pago il giro. Non fermarmi, fratello, non fermarmi: pensa a quello che hai tu e che non ho io. Addio Laghetto, addio Woodland, addio Bar Alpino, addio. Guarda questo fiume nero, guarda come è tutto chiaro”.

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