Contemplativo e forse vagamente autobiografico, “Il vecchio al mare” di Domenico Starnone vede uno scrittore ottantaduenne alle prese con due dei misteri più grandi: sé stessi e l’umanità. Ed è lungo una spiaggia imprecisata, nel mese di ottobre, che si trova il tempo giusto per osservare il mare, guardarsi dentro e conoscere chi ci passa accanto, stanando i piccoli intrighi quotidiani di una comunità…
Quando si inizia Il vecchio al mare, il nuovo romanzo di Domenico Starnone in libreria per Einaudi, si ha l’impressione di un omaggio alla fragilità umana: il protagonista e io-narrante, l’ottantaduenne Nicola, si trova da solo su una spiaggia imprecisata nel mese di ottobre, e lì vede una “figurina dai contorni d’oro” (p. 4). Prova a rincorrerla, ma quella è troppo veloce per le sue gambe anchilosate e per il suo cuore balzano. Non sa esattamente cosa sia l’apparizione, ma di sicuro appartiene a quelle “scuciture del consueto” (p. 6) che ha sempre visto e vissuto, suscitando ora la preoccupazione ora la derisione da parte delle donne che gli sono state accanto.
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Sì, perché lui è uno scrittore e, come tale, pur sentendosi “epigono di epigoni” (p. 41), ha sempre avuto la tendenza a raccontare trasfigurando, non si è mai limitato a registrare il reale, ma ha mescolato tante volte passato e presente. Il tutto, annotando pazientemente i suoi quaderni a matita; negli ultimi anni, tuttavia, l’illusione rassicurante di poter cancellare ciò che ha scritto si fa sempre più labile.
Ora che ha scritto parecchie opere, Nicola non si dichiara fiero della sua carriera. Anzi, ai suoi occhi l’ispirazione è scomparsa e lamenta il fallimento delle sue illusioni originarie:
“[…] e sono diventato un mediocre scribacchino ateo che, disgustato da come funzionava male il mondo, voleva contribuire a sovvertirlo e rifarlo perfetto. Però non è andata bene nemmeno così. Il tempo è passato, il mondo è diventato ancora più imperfetto e a me è rimasta solo la smania di fare racconti con piccoli eventi della vita di ogni giorno”. (p. 86)
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Alla narrazione principale si avvicendano interessanti riflessioni metaletterarie come questa, tra le quali salta all’occhio la funzione centrale attribuita alle parole di uno scrittore: scrivere bene per Nicola è “trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera” (p. 86). Nonostante o forse a causa dei suoi cinquant’anni di scrittura, Nicola sente di aver perso la soddisfazione in ciò che fa (“Ho scritto e recitato cose per ridere, ma da molto tempo non mi diverto più”, p. 39) e in effetti si è vergognato più volte di essersi guadagnato da vivere scrivendo.
Qui, in un posto dove i turisti se ne sono andati, gli resta tanto tempo per contemplare i piccoli segni di vita e di morte che il mare offre (come un banco di alici che nuota impazzito, contrapposto ad altre alici ormai riverse sulla spiaggia con il loro ventre argento riverso).
Inoltre, Nicola annota la vita degli abitanti locali, fingendo di essere ciò che non è, ovvero spacciandosi per un magistrato della tv in pensione. E gli altri parlano, si mostrano senza particolari difese. Così sulla carta prendono forma le loro azioni, alternate ai dialoghi che i conoscenti intrattengono con lui.
Se a volte pare che sia la solitudine di Nicola a indurre i presenti a prendere la parola, altre volte si nota che è il protagonista a creare occasioni per qualche chiacchiera apparentemente futile, che invece svela il carattere di chi gli sta attorno.
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Dapprima incontriamo la signora Evelina, proprietaria della boutique del paese, che confida fin troppo presto il suo matrimonio infelice con Silvestro, un uomo più giovane di lei e irrimediabilmente manipolatore e fedifrago. Non sorprende allora che questa elegante sessantenne si leghi subito a Nicola e, alla sua richiesta di visitare la boutique, mostri entusiasmo: “E che problema c’è? Venga quando le pare, resti quanto le pare, non ci posso credere che è disposto a stare un po’ con me” (p. 28). Evelina non sa ancora che lì, tra i vestiti appena tagliati e cuciti, Nicola rivive sensazioni della sua infanzia legate alla madre sarta, scomparsa troppo precocemente. Fantasma che appare e riappare nel romanzo, la madre è portatrice di poesia e di rimpianto per un tempo quasi idealizzato, che risorge nella trama ripetitiva delle giornate marine:
“È probabile dunque che sia stata l’immaginazione a cancellare la mia vera madre, a costringermi ancora oggi a inventare di tutto pur di ritrovare almeno un frammento veramente suo tra le troppe fantasie preoccupate”. (p. 48)
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A evocare il fantasma materno, per quanto non le somigli, è la commessa di Evelina, la ventiquattrenne Lu, che ogni giorno all’una e mezza solca il mare con la sua canoa. I suoi gesti precisi comunicano una ferma determinazione, che non è, invece, ravvisabile nella sua vita privata. Oltre a sentirsi bloccata al paese, pur sognando svolte che non arrivano mai, Lu ha una relazione con un giovane geloso, Gino, e intrattiene contatti sporadici con il padre di suo figlio, Maurizio, un insegnante deluso dalla vita che, lasciata la scuola, scandaglia la spiaggia col suo metaldetector, in cerca di chissà quali ritrovamenti. Soprattutto di oggetti del passato.
La decisione un po’ balzana di acquistare un kajak al negozio di Silvestro, facendosi platealmente truffare, e di chiedere lezioni a Lu su come pagaiare è solo un innesco che permette a Nicola di farsi strada in una comunità con i suoi segreti: quel vecchio solitario che scribacchia in spiaggia viene a tratti accettato e in altri momenti guardato con sospetto. E così sulla pagina, in cui si delinea tutto il talento di Domenico Starnone, prendono forma intrighi sottili che svelano la piccolezza umana, l’affannato rincorrere un tempo che, tanto, continua a passare.
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